Quando esce un album post-punk e siamo nel 2018 ci viene sempre da dire che basta, che questo è l‘ultimo, che ormai si è detto tutto e che l’originalità è un’utopia. Poi però finisce che ci lasciamo attrarre anche da quello dopo perché magari lo riconduciamo a qualcosa di meno sfruttato, o ci lasciamo intenerire dal modo in cui hanno manipolato alla rinfusa gli ingredienti base per conferire un taglio un po’ diverso alla solita minestra, o anche solo perché il disco è così divertente e noi così ingenui da dirci che chi se ne importa, se è così che ci piace la musica è giusto rivendicare il nostro diritto agli ascolto.
Prendiamo questi Actors. Vengono da una delle città universalmente note come tra le più vivibili del mondo - Vancouver - e il loro atteggiarsi un po’ dark manifesta credibilità solo a tratti. Nel panorama del genere, il quartetto canadese si colloca in quell’area tra new wave elettronica e shoegaze ante-litteram che all’estero aveva il suo riferimento nelle sonorità della scuderia 4AD mentre, in Italia, talvolta non era difficile scambiarle per una italo-disco un po’ più ricercata solo perché certi suoni - la batteria elettronica e le linee di basso synth alla “Tarzan Boy”, per capirci - non era raro che avessero la stessa matrice.
“It Will Come to You” si apre con una aflockofseagullsiana “L'appel Du Vide” per poi sprondare nel dark di “Slaves”. Con “Face Meets Glass” la band alterna voce maschile e femminile - un po' come i Visage - in una melodia a tratti scontata ma la successione di accordi marcati dal synth si presta a soluzioni troppo accomodanti da non approfittarsene.
L’incipit di “Hit Of The Head” è una marcata citazione di “A Strange Day” dei The Cure, per fortuna un accattivante riff di sintetizzatore interrompe la sequenza di similitudini, ci distrae dal plagio e ci porta nel pieno di un brano che ha tutte le carte in regole per diventare un hit a colpo sicuro. Le voci spettrali e i suoni distorti di “Crosses” sprofondano però l’ascoltatore nelle tinte più funeree dell’album, dalle quali non se ne esce più. “Bury me” è giustamente intriso di un pessimismo secondo solo a quello dei Clan Of Ximox di “A Day”, mentre “Crystal” approfondisce la complementarietà tra la dark wave e i ritmi più danzerecci, perché non è detto che si debba per forza essere su di morale per ballare anche se la successiva “We don’t have to dance” - tra U2 degli albori e Ultravox della deriva a guida Midge Ure - rimette tutto in discussione.
Il disco ci lascia quindi con un’incursione conclusiva nel synth-pop di maniera, con la veloce “Let It Grow” e un’ottima chiusura strumentale, “Bird In A Hand”, che sancisce l’utilità degli strumenti a tastiera quando si ha necessità di trasmettere emozioni algide.
Gli Actors nel complesso dimostrano buoni spunti ma pagano tutti i limiti dell’eccessiva aderenza ai cliché del post punk elettronico, un genere che indubbiamente permette di sfogare la propria verve sperimentale (e infatti, ai tempi dei Cabaret Voltaire, era il non plus ultra) ma che, nell’era dei virtual synth scaricabili da Internet, è ormai alla portata di tutti e impone una maggior attenzione allo stile per consentire un’emancipazione dalle proprie radici a vantaggio della possibilità di lasciare un segno più definito.