Nel gran minestrone di generi, di corsi e ricorsi storici, va riconosciuto a Stephen Brunner, alias Thundercat, il merito di aver reso giustizia ad un genere musicale ritenuto dalla critica intransigente e con la puzza al naso come un incidente di percorso nelle magnifiche sorti e progressive della musica rock, cioè quel genere che va sotto il nome di yacht-rock, che soltanto per mero vezzo da intellettuali da quattro soldi, per alcuni non è meritevole di ascolto.
Bene: Stephen Brunner nel suo rifrullio di stili, un toboga che se avete il coraggio e la voglia di affrontare vi accompagnerà in un viaggio immersivo nei meandri dello space-jazz, di certo funky sbilenco che amoreggia con l’r’n’b e l’hip-hop, e come detto sopra, nei piaceri dello yacht-rock.
Come ebbe a dire Michael McDonald, già collaboratore di Brunner nel precedente album pubblicato nel 2017, “Drunk”, Thundercat è il solo artista che ricorda il lavorio operato dal duo Fagen-Becker, aggiornato ai giorni nostri ovviamente, dacché troppo facile sarebbe ripercorrerne le gesta facendone una conforme copia carbone.
E anche nel nuovo “It Is What Is It” le intuizioni che fecero di “Drunk” uno degli album da ricordare del decennio appena trascorso, sono vieppiù scandagliate e portate ad un livello ancor più di immediatezza uditiva, cosa che non va a discapito delle tematiche trattate, anzi, possiamo dire che un alleggerimento del portato sonoro contrasta decisamente con la crisi esistenziale che ha scosso Brunner dal giorno della dipartita del suo amico Mac Miller.
L’album funziona così bene che vi sembrerà naturale passare dal cosmic-jazz dei primi due brani, al soul, al funk e al pop di matrice californiana.
“Lost In Space”, che altri non è che l’intro ad “Interstellar Love”, pezzo dove giganteggia in solitaria il sax di Kamasi Washington, pezzo di catarsi e momento sublime di contemplazione sonora. Con ancora in testa questo brano di suprema venustà, siamo pronti per approcciarsi alla batteria nervosa e al tappeto d’organo chiesastico a supporto di una melodia celestiale in “I Love Louis Cole”, che nel falsetto di Brunner ci regala reminiscenze del Brian Wilson che fu, concludendosi con un brevissimo tappeto di archi.
Poi arriva il tributo allo Yacht-Rock con “Black Qualls”, e arriva il gran lavorio del basso di Brunner (non dirò una bestemmia affermando che il nostro è molto, molto vicino alla maestria di Jaco Pastorius) e arrivano i pezzi da novanta a rendere il brano una meraviglia e una vetta altissima dell’intero lavoro: Steve Lacy, Steve Arrington e Childish Gambino.
Ancora il basso pulsante di Brunner che in “How Sway” ci ricorda quanto grande fosse la fusion prima dell’arrivo di quelle pappemolli dello smooth-jazz, “Funny Thing” è r’n’b materico e pastoso, grana groove che ha la leggerezza degli anni ’80; in “Overseas” siamo ancora in territorio yacht-rock, echi lontani dei Doobies che proseguono con “Dragonball Durag”, avvolgente ed ammaliante come il canto di una sirena.
Se fin qui le liriche del lavoro hanno avuto la consistenza di scenette autoironiche, da “King Of The Hill” si cambia bruscamente e si parla di autodistruzione e di droghe pesanti, da qui in poi tutti i pezzi saranno incentrati sul concetto di perdita che ci riporta alla morte dell’amico Mac Miller causata da una accidentale overdose.
Conseguentemente il supporto sonoro alle liriche risulta più frugale, Brunner punta all’essenziale e si lascia dietro le raffinatezze e lo sbrilluccichio della prima parte ed opta per uno scarno contemporary r’n’b memore della lezione di Robert Glasper.
Brunner canta del vuoto esistenziale, canta del dolore, della perdita e dell’elaborazione del lutto, non trova e non vuole dare risposte se non quella che ci ripetiamo spesso: “It Is What It Is”, così è, è andata così.