Prima volta in Italia per gli Ist Ist, e davvero non si capisce perché ci abbiano messo tutto questo tempo. Vero che dalle nostre parti l’interesse per la musica non è proprio alle stelle, come già più volte ricordato, ma è altrettanto assodato che un certo tipo di sonorità tra Post Punk e New Wave ha sempre fatto breccia piuttosto facilmente. Strano dunque che Adam Houghton e compagni abbiano dovuto attendere sette anni e quattro dischi prima di venire a farci visita ma tant’è, l’importante è che adesso anche a noi sia data la possibilità di vederli.
L’occasione è il nuovo tour che segue la pubblicazione di On Fire, versione live dell’ultimo album Light a Bigger Fire, con i suoi dieci brani registrati dal vivo in dieci location differenti. Un’uscita interlocutoria, che francamente ho faticato a comprendere, soprattutto perché sul palco il quartetto non è poi così diverso da quello che si può sentire in studio (a questo punto sarebbe stato meglio un’altra registrazione integrale di uno show, nonostante ce ne siano già parecchie).
Dopo la data di Bologna della sera precedente, è l’Arci Bellezza ad ospitare quella milanese, ed è un piacere constatare che, per l’ennesima volta quest’anno, il club risulta sold out. Che qualcosa si stia davvero muovendo non oso sperarlo ma sono comunque tutti segnali positivi.
Non è prevista nessuna apertura e sono dunque gli Ist Ist a salire direttamente sul palco, poco dopo le 21.30, sulle note della potente “Stamp You Out”, che pur inaugurando le scalette del precedente tour, funziona ancora benissimo come opener. A ruota, due estratti dall’ultimo disco, “Something Else” e “Lost My Shadow”, prima di due brani ormai classici come “Silence” e “Black”.
I nostri non si perdono via troppo in chiacchiere, fatto salvo un rapido saluto del bassista Andy Keating. I pezzi si susseguono uno via l’altro, sulla spinta propulsiva del batterista Joel Kay, poco vario nelle dinamiche ma implacabile in quanto ad esecuzione, per come sa fornire ai vari pezzi quell’atmosfera marziale che li caratterizza.
Se c’è una critica che si può fare alla band di Manchester, è che sia eccessivamente derivativa (sin dalla città di provenienza, in effetti): nella sua scrittura sono ravvisabili riferimenti neanche troppo nascosti a tutti i principali nomi della scena Wave, da quelli storici come Joy Division, New Order, Fall e The Sound, a quelli più moderni come Editors e Interpol. Il loro songbook è tutto una gigantesca citazione, senza che abbiano però la caratura e lo spessore degli originali.
In più la voce di Adam Houghton, pur profonda e a tratti evocativa, risulta alla lunga fin troppo monocorde, inficiando la resa di episodi dalla scrittura comunque efficace. Aggiungiamoci un repertorio che privilegia i mid tempo o i ritmi rallentati, senza mai troppo lanciarsi in cavalcate rabbiose e liberatorie, ed otterremo un quadro che potrebbe anche essere definito non entusiasmante.
E allora dov’è che gli Ist Ist funzionano, esattamente? Qui sta il bello, in effetti: sono ultra derivativi, non possiedono un repertorio che faccia gridare al miracolo, hanno un cantante non irresistibile e dal vivo risultano un po’ troppo monocorde. Eppure, man mano che si va avanti, ci si scopre rapiti: c’è l’aurea oscura delle canzoni, il drumming glaciale, i Synth che avvolgono l’aria (molte parti sono in sequenza ma altrettante le suona Mat Peters quando non è impegnato alla chitarra) e, soprattutto, i pezzi alla fin fine ci sono.
Non stiamo parlando di capolavori assoluti, certo, ma “The Kiss”, “Drems Aren’t Enough” e “Jennifer’s Lips” sono piccole hit minori, “Extreme Greed” impressiona con il suo cupo andamento marziale, “Nothing More Nothing Less” è ben costruita nonostante le somiglianze con il repertorio dei primi New Order siano fin troppo evidenti. C’è pure un pezzo nuovo, “The Echo”, che non si discosta per nulla da quanto il gruppo ha mostrato finora, ma che al primo ascolto suona comunque compatta e accattivante.
Nel complesso, e pur con i difetti evidenziati, la prestazione dei mancuniani è potente e straordinariamente generosa. Sono interessanti anche quei momenti in cui mostrano il loro lato più elettronico, con le chitarre che lasciano il posto ai suoni digitali (“XXX” o la “Hope To Love Again” suonata nei bis) ma anche quando si abbandonano alla malinconia di una ballata dimessa: il set principale è chiuso da “Ghost”, con Peters al piano elettrico, uno dei pochi momenti riflessivi prima che la seconda parte esploda con l’ingresso della chitarra e della sezione ritmica.
Nei bis arrivano poi due classici come “Emily” e “You’re Mine” (su quest’ultima hanno spinto parecchio) per poi chiudere con “Slowly We Escape”, uno degli autentici gioielli della loro discografia: inizio lentissimo, quasi funereo, crescendo graduale e finale notevolmente dilatato, in accelerazione e con le chitarre grandi protagoniste, vero e proprio momento di catarsi collettiva.
Gran bel concerto, nonostante tutto. Viene voglia di aspettare il prossimo disco e di tornare a vederli, speriamo che l’accoglienza ricevuta li convinca a venire a farsi un altro giro.
Photo courtesy: Laura Floreani