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REVIEWSLE RECENSIONI
01/06/2022
Modern Nature
Island of Noise
Hanno osato. E ci hanno fatto un bel regalo. I Modern Nature trasformano il loro terzo capitolo, Island of Noise, in un allargamento di formazione a musicisti di stampo più jazzistico e legato all’improvvisazione, tanto da consentire al loro eterno indie e folk pop di diventare ben altro, addirittura qualcosa di avanguardistico e di inaspettato.

Hanno osato. E ci hanno fatto un bel regalo. I Modern Nature trasformano il loro terzo capitolo, Island of Noise, in un allargamento di formazione a musicisti di stampo più jazzistico e legato all’improvvisazione, tanto da consentire al loro eterno indie e folk pop di diventare ben altro, addirittura qualcosa di avanguardistico e di inaspettato.

Se "Tempest" prepara con un’introduzione libera e sonora, la partenza di "Dunes" non lascia spazio a fraintendimenti: la canzone si è evoluta, è diventata altro, e gli ospiti non sono dei semplici passanti, bensì il loro contributo è la bandiera dell’intero nuovo progetto.

"Performance" strizza l’occhio a quel capolavoro che è "In a silent way" di Miles, facendo intuire la larghezza armonica che si respira dopo la fine del suono di due fiati armonizzati, che lasciano il terreno per un paio di battute alla tessitura ritmica costante, in questo caso sicuramente meno eterea ma più ossessiva ed armonica, essendo in entrambi i casi basata su un unico accordo, un bordone.

Ci sono le parole, c’è l’interesse per una storia, per delle ombre che svolazzano. E ci sono dei fraseggi chitarristici più legati all’immediato passato della musica indipendente. Un bellissimo quadro.

In "Ariel" emerge l’assenza insieme alla trama in cui stringono gli archi quando fanno capolino e mettono il timbro su uno dei pezzi migliori dell’intero disco.

"Bluster", invece, accompagna in una predominanza di suoni legnosi, dove regna la calma assoluta e la voce velata di Jack Cooper; nasce la timida curiosità di immaginarsi questi brani qualche anno fa in un loro linguaggio diverso, meno libero, più incastrato negli arrangiamenti di una band, e subito il pensiero si ferma lì senza alcuna pretesa di ulteriori paragoni.

"Symmetry" è un paragrafo isolato di intrecci ben incastrati, un piccolo battello che porta su qualcosa di più solido nelle sembianze di un ritmo trascinante di un ride e di un sottofondo ripetuto di sax. Il momento che ne consegue è il migliore del disco e coincide col ritornello di questa strana "Masque", dove emergono cerchi nella terra dalle parole.

Il contrabbasso di "Brigade" stacca l’inizio successivo che porta, passando da un’atmosfera velatamente arabeggiante, ad un altro ritornello perfettamente in equilibrio ed amalgamato con un’armonia finalmente universale e circolare. Lo spazio che si prendono i fiati nel momento finale è perfetto e all’altezza del brano, tanto da essere chiuso prima che diventi qualcosa di facilmente risentito.

"Spell" è delicata, una chitarra elettrica attenta e brillante che accompagna la melodia vocale in maniera forse già sentita nel corso dell’album, ma sicuramente azzeccata e in piena rappresentanza delle belle sensazioni, c’è poco altro da dire.

E tocca a "Build" preparare la chiusura del sipario. C’è una piccola tensione nell’aria, una voglia di esplodere in qualcosa di assolutamente non distruttivo, ma anzi, accompagnato in ogni maniera fino a giungere pacificamente nelle nostre mani, tanto che ce lo chiedono ripetutamente, "Do you see it?" fino a farci diventare un’unica cosa insieme a questo ristagno di frequenze che vanno delicatamente ad impazzire verso il finale.

Ci hanno portato altrove ed il viaggio, a chi piaccia essere trasportato, è garantito.