È ormai un po’ di anni che in Italia il concetto di “cantautore” si è evoluto in maniera complessa, attraverso ibridazioni e contaminazioni varie, fino ad assumere connotati di non facile classificazione. Certo, nulla di nuovo rispetto a quanto facevano già Battiato o Fossati (due nomi a caso) nella prima fase della loro carriera, anche perché le radici di questo mutamento affondano come sempre negli anni ’70 e in tutta la libertà creativa sottesa a quel decennio.
Quindi, per carità, giustissimo lodare i lavori di Iosonouncane, Andrea Laszlo De Simone e Daniela Pes (per citare quelli che più godono del favore del pubblico) a patto di essere consapevoli che si tratta dell’ennesima variazione su un tema, quello della musica di “ricerca”, che non ci è mai stato del tutto estraneo.
Negli ultimi anni, tuttavia, pare essere divenuto una sorta di sotto genere parallelo a quell’It Pop che ha dominato le classifiche almeno fino al 2019, ma che in questo ancora confuso periodo Post Covid sembra ormai avere perso la spinta propulsiva (fatta eccezione, ovviamente, per quegli artisti che stanno ancora capitalizzando i numeri della prima fase di carriera). Si tratta indubbiamente di una notizia positiva, considerato che, nonostante il rischio di reiterazione degli stessi schemi sia sempre dietro l’angolo, la ricetta è decisamente più interessante rispetto a quella dei vari Calcutta e Gazzelle.
Simone Matteuzzi, classe 2001 ed ultimo arrivato in questo affollato panorama di sperimentatori senza confini, pare incarnare alla perfezione questo concetto di liberarsi di barriere e condizionamenti, per farsi condurre dove portano inventiva e ispirazione.
Le radici, nel suo caso, sono ben individuabili nella Black Music, in una passione per Pino Daniele che lo ha portato, nel 2022, a vincere il premio “Ricerca e Contaminazione” istituito dalla Trust Onlus dedicata al musicista napoletano. Da lì, la partecipazione a Musicultura l’anno successivo, dove è arrivato tra gli otto vincitori, e la finale del Jazz the Future, l’importante concorso del JazzMi e del Volvo Studio, da cui sono già in passato diversi talenti.
Il curriculum, insomma, evidenzia un potenziale che l’esordio Invito per colazione ha adesso dispiegato con grande naturalezza.
Prodotte dallo stesso Matteuzzi assieme a Daniele Spatara, queste dieci canzoni (una è un breve intermezzo strumentale) rappresentano il tentativo di far luce sulla condizione dell’artista nella società contemporanea, dominata dai Social e dalla cultura dell’effimero, attraverso l’evocazione di un “non luogo” in cui l’autore chiama un ipotetico interlocutore (che sia un amico o proprio noi che ascoltiamo il disco) a fare colazione con lui; lì, sospesi in uno spazio-tempo cristallizzato, quasi come in un quadro di De Chirico, l’io narrante può parlare di sé a prescindere dalle convenzioni e dalle aspettative, comunicando ciò che gli sta a cuore senza usare per forza immagini convenzionali, bensì evocando figure e metafore dal sapore spesso surreale.
Ecco quindi le visioni bucolico-mistiche della title track, il quasi dadaismo di “Elettrico”, l’intimismo “dalliano” di “Affinché il mare”, le acrobazie analogiche di “Zanzare”.
Una libertà espressiva che si respira anche nelle musiche (ammesso che si possano trattare separatamente i due aspetti) che mescolano generi, influenze e suggestioni senza troppo interrogarsi se stiano o meno bene insieme. A partire da “Le mele”, Neo Soul in salsa Venerus, tra ritmiche sinuose e stop ‘n go, continuando con una “Elettrico” che assomiglia ad una marcia distorta e psichedelica, semplicemente favolosa nella sua follia irriverente; “Ipersensibile” gioca col Synth Pop e con quelle strutture eclettiche che una decina di anni fa sentivamo sui dischi dei Marta sui Tubi; “Caldo” è una di quelle più tipicamente anni ’70, tra Progressive e Anima latina (il tema centrale alla chitarra è molto eloquente), e ricorda a più riprese altri grandi fantasisti contemporanei come Marco Castello e Andrea Poggio.
“Invito per colazione” è per quanto mi riguarda l’apice compositivo del lavoro assieme alla conclusiva “Zanzare”: psichedelia orientaleggiante come se fossimo sul White Album, il sax tenore suonato da Edoardo Viganò a squarciare, nel finale, il mid tempo straniante che caratterizza il brano e trasformarlo in un’esplosione di colori e rumori. “Vorrei essere un gatto” alza invece di molto la quota elettronica, con tanto di cassa dritta in evidenza ed una generale atmosfera di divertita eccentricità.
Di “Zanzare” ho in parte già detto: paradossalmente, uno degli apici del disco si raggiunge quando il suo autore si spoglia di tutto e si abbandona alla forma canzone nella più classica delle composizioni. Chitarra acustica, un sassofono leggero, la produzione da demo casalinga, per un brano che è comunque di una lucidità pazzesca, e che concentra in poco più di tre minuti decenni di ispirazione cantautorale.
Invito per colazione sarà uno dei dischi italiani dell’anno, non importa se siamo solo ad aprile. Per quanto riguarda le prospettive di successo, non mi esprimo perché non ne ho mai azzeccata una, ma in un mondo che funziona come dovrebbe di Simone Matteuzzi si dovrebbe parlare almeno tanto quanto si parla di Venerus o di Daniela Pes.