Se avete seguito Caro Battiato, il commovente tributo realizzato da Pif in occasione del concerto dedicato a Franco Battiato lo scorso settembre all'Arena di Verona e trasmesso su RaiTre qualche sera fa, sarete rimasti sorpresi dal modo in cui gli amici, i colleghi e i più stretti collaboratori del Maestro lo hanno ricordato. Non mi sarei mai aspettato che Battiato fosse un giovialone e un amante delle barzellette, per dire. Le sue liriche mi hanno sempre trasmesso austerità, speculazioni filosofiche, a tratti persino supponenza tendente a prendersi gioco dell'ascoltatore medio attraverso i celebri apparenti nonsense sui quali la critica, nel tempo, si è dibattuta a spremere significati. E ad ascoltare certe sue canzoni, che sembrano provenire da un mondo platonico delle idee, è altrettanto difficile credere che un artista del rango di Franco Battiato potesse frequentare il lato meno nobile e popolano dell’ambiente dello spettacolo, quello da cui provengono personaggi più terra terra come Jovanotti o Morgan o Celentano.
Invece, a differenza di altre analoghe iniziative pensate per la beatificazione di un cantautore scomparso, è proprio l'inaspettata pluralità della personalità e della vita stessa di Franco Battiato a rendere un suo tributo urgente, riuscito, variegato ed estremamente piacevole.
Certo, un detrattore potrebbe obiettare l’operazione, sottolineando la facilità con cui chiunque sarebbe in grado di identificare, nella produzione di un artista così prolifico per sé e per altri, almeno un brano in cui rispecchiarsi. Può esistere un trait d’union tra interpreti che, almeno apparentemente, provengono da luoghi e tempi così distanti? Cosa ci fanno Finardi, Cristicchi, gli ex Litfiba, Alice, Gianni Morandi, la cantante dei Lacuna Coil e persino Capossela e i Baustelle sullo stesso disco e, prima ancora, sullo stesso palco? Invito al viaggio, l’album tratto da quella serata dedicata al cantautore siciliano, è un vero e proprio miracolo, prima che un compendio. Esperienze diverse, artisticamente ai poli opposti, ciascuna a rappresentare un pezzo di un universo eterogeneo ma sorprendentemente in armonia.
E anche solo sotto questo punto di vista, l’album Invito al viaggio e il programma Caro Battiato che ne è stato tratto - aumentato dal valore aggiunto della sensibilità di Pif - risultano imperdibili.
C’è proprio tutto: Branduardi che gioca al “Re del mondo”, Morandi che si chiede, a ragione, “Che cosa resterà di me”. Carmen Consoli che personifica l’amore e l’intero universo che gli obbedisce, le nuove generazioni nella voce di Mahmood, perfetta per “No time, no space”, Cristina Scabbia nella trascinante “Strani giorni” e l’ispirata “Povera Patria” di Paola Turci. I grandi classici come “La cura”, giustamente attribuita alla musa Alice e “La stagione dell’amore” in versione Mannoia. Re-interpretazioni già consolidate come “Up patriots to arms”, da tempo nel repertorio dei Subsonica, e Luca Madonia a ribadire la natura terzinata di “Summer on a solitary beach” priva del ritmo di marcetta della versione originale, fino a “Cuccurucucu Paloma”, vero e proprio inno da stadio con tanto di sillabe finali trascinate e allungate da Gianna Nannini, come solo lei sa fare. In tutto 35 tracce, il che significa che, oltre a questo, c’è molto di più e il programma tv, pur avendone omesse molte, è riuscito tutto sommato a condensarne l’essenza.
Invito al viaggio è quindi un’opera di quelle che offrono la possibilità, ai cantautori che non ci sono più, di sentire, dall'empireo in cui si trovano ora, il calore dei loro sostenitori da questa parte della terra. De André, Ivan Graziani, Lucio Dalla, Claudio Lolli e, da quest’anno, Franco Battiato, ma sono sicuro di averne dimenticato qualcuno. Più delle rockstar, più dei Bowie o dei Kurt Cobain, i cantautori sono ambasciatori in qualche aldilà della civiltà che abitiamo dal vero ogni giorno, nelle nostre piccole città italiane. A casa, per le strade e nelle piazze, sul posto di lavoro, a scuola, nei quartieri dormitorio, nei centri storici, nella vita privata e in quella pubblica. Questo perché, a differenza di Prince o di Amy Winehouse, i cantautori parlano la nostra lingua, vivono i nostri sogni, ci prestano il modo per dire al nostro prossimo più vicino che siamo tristi, siamo felici, amiamo qualcuno o qualcuno ci ha tradito, vorremmo cambiare ma non ce la facciamo, siamo cambiati ma poi tutto è tornato come prima.
Il fatto è che non sempre ce la raccontiamo giusta, perché i martiri del rock straniero sono tentacolari in quanto impersonano il posto in cui abbiamo idealizzato la nostra vicenda personale, e ci mancherebbe. Londra, Seattle, Berlino, New York. Ma, alla resa dei conti, senza la saetta rossa disegnata sulla faccia, la camicia di flanella a quadrettoni, la Stratocaster incendiata sul palco o distrutta contro l'ampli, possiamo tornare ad accettare noi stessi, i vicoli di Genova, le piazze di Bologna, l’hinterland milanese, i borghi medievali, la suburbia di Roma, la provincia diffusa e rarefatta, il sud, la Sicilia.
Per chi è cresciuto quando i cantautori erano gli interpreti di questa vita quotidiana di tutti, un cantautore morto si porta via una parte non da poco. Anche se, negli anni d'oro del cantautorato, si ascoltava tutt'altro. Perché le canzoni dei cantautori erano ovunque. Erano come il battito del cuore delle nostre madri, quello che sentiamo per nove mesi mentre tutte le nostre cose vanno al loro posto. Un universo sonoro che viene fuori ogni volta che ci serve una frase fatta, un verso, un modo per esprimere qualcosa che sia compreso al volo perché, proprio come dice Battiato, il giorno della fine non ci servirà l'inglese.