I Cream e la Jimi Hendrix Experience, forti di un tasso virtuosistico mai sentito prima, spazzarono via in un sol colpo il flebile Folk-Rock di Los Angeles, lo sballato acido di San Francisco e quanto rimaneva del Merseybeat, del Surf e della British Invasion. I Beatles, divinità talmente enormi da non riuscire nemmeno a suonare dal vivo (per chi se la beve ancora…) furono rasi al suolo e costretti a sciogliersi con una Fender puntata alla tempia.
L’America, notoriamente un mercato troppo enorme per votarsi interamente ad una sola corrente, fu comunque elettrizzata da quel formato compatto di Power-Trio britannico (Hendrix dovette emigrare a Londra per costruirsi una carriera…). Ma se Clapton ed il mezzosangue cherokee erano modelli di improba imitazione per teenager brufolosi alle prime armi, ingrifati di rock e chitarra elettrica, fu un oscuro gruppo di bikers di Frisco a trovare una soluzione e stabilire una specie di nuovo “canone”. I Blue Cheer, e specialmente l’inetto chitarrista Leigh Stephens, capirono che non importava poi essere virtuosi spaziali quando chiunque può ruotare la manopola del volume verso destra. Verso destra finché ce n’è… Il volume, e il feedback caotico (sua immediata conseguenza) furono una chiave di volta, una scorciatoia che poteva trasformare qualunque chitarra elettrica in una roboante e futuristica arma di distruzione di massa. Ma ancora non bastava a stabilire una nuova estetica. La risposta questa volta venne da oltreoceano…
I Cream dopotutto erano un supergruppo di partigiani blues a tempo determinato, tanto immersi nel business da non riuscire a creare un culto di fans fondato sull’empatia e il feeling. Hendrix era il manifesto di ogni megaraduno del 1970 ma il suo stile era talmente unico e inarrivabile che nessuno sarebbe più riuscito a suonare come lui, e il solo tentativo di replicare i suoi assoli fiammeggianti avrebbe frustrato migliaia di quindicenni da lì al 1975. I Blue Cheer, ahimè, non se li filava nessuno.
Fu allora che su questo triplo triangolo si inserì, come potente catalizzatore, il quartetto britannico dei Nuovi Yardbirds, o Led Zeppelin se preferite, reietti in patria e mendicanti fortuna in USA; con i primi quattro tour, tra il 1968 e il 1969, aggiunsero a virtuosismo, volume e feedback una spropositata carica sessuale maschilista ed una batteria semplice ma potentissima. Il gioco era fatto.
Nel loro solco si stabilì, tra gli altri, quello che sarebbe subito divenuto il gruppo-paradigma dell’Hard-Rock made in USA: i Grand Funk Railroad. La loro è la stessa storia, ma con un notevole lieto fine economico, di quella di centinaia di altri gruppi da garage. Insieme già dal 1967, col nome di Terry Knight and the Pack, per anni cercarono il sound giusto e lo trovarono proprio nella nuova heavy-music. Folgorati sulla via di Damasco, convertiti a terzetto dopo che Terry Knight da cantante divenne supremo Produttore-Mentore, banalizzarono gli arrangiamenti complicati degli Zeppelin, piallarono via gli orpelli virtuosistici dagli assoli di Hendrix e limitarono le stonature volumetriche dei Blue Cheer riadattando la distorsione per la massa. Poche idee e piuttosto confuse, ma grande musica (paradosso?) ed enorme successo. Assieme a Steppenwolf, Mountain, e nel nome di due grandi Padri-Casuali, gli Iron Butterfly di In-A-Gadda-Da-Vida e i Vanilla Fudge di Some Velvet Morning, la missione era compiuta.
La strada, una enorme highway senza curve, che attraversa steppe, deserti, saloon, motel, bordelli e festival all’aperto, già illuminata al tramonto da una lunga teoria di luci gialle, è segnata. Allora tutti a bordo, ragazzi e keep on rockin’!
U.S. Hard-Rock Underground è una raccolta di eroi dimenticati del più profondo Hard-Rock made in USA (con qualche sconfinamento in Canada…) tra il 1969 e il 1975. Gruppi disparati, numerosissimi, sconosciuti gli uni agli altri, sconosciuti soprattutto al grande pubblico, separati tra loro da migliaia di miglia di highway, eppure portatori di una idea musicale unitaria e coerente, asserragliata attorno a poche idee fisse: volume, riff e sesso. Un vero e proprio Movimento… inconsapevole.
Questa carrellata non vuole essere né un mero elenco di LP, né una pomposa raccolta di recensioni, bensì una serie di segnalazioni “selezionate”, una guida turistica all’ascolto di dischi da scoprire una volta per tutte.
La qualità dell’opera, attenzione, non è MAI un fattore discriminante in questo caso: molte di queste band sono grette, banali, pedissequamente ricalcate sui successi dei Maestri, così zeppe di cliché da andare ben oltre il kitsch. Non sono differenti da tanti titoli deteriori di generi iper-caratterizzati: stanno ai capolavori come Campa carogna... la taglia cresce sta a Per un Pugno di Dollari, ma proprio per questo oggi assurgono al massimo grado di stracult della più genuina cafonaggine Hard Rock dei primi anni ’70, rigorosamente oltre i 100 dB.
E il divertimento è assicurato!
Alcune note di metodo e qualche riferimento
Nel lungo elenco di U.S. Hard Rock Underground troverete solo album pubblicati tra il 1969 e il 1975, il periodo d’oro dell’hard-rock nordamericano; troverete solo album che non sono mai finiti in classifica, quindi niente Grand Funk, niente B.O.C., niente Mountain e compagnia bella: su questi artisti si è già scritto tutto lo scrivibile…non se ne può più. In oltre: solo LP ufficiali; niente demo, nessun bootleg. Nessun gruppo esplicitamente Southern: il Southern è un’altra cosa, simile, certo, alla nostra materia, ma un’altra cosa.
La maggior parte delle informazioni sono tratte dei booklet e dalle note di copertina di vinili e CD ma ci sono alcuni testi assai importanti, primo fra tutti Fuzz, Acid & Flowers di Vernon Joynson. Questa è la più completa ed esauriente discografia della musica americana mai compilata: un lavoro di titanica pazienza che enumera pressoché tutti i gruppi che abbiano pubblicato almeno un 45 giri tra il 1964 e il 1972.