Ha chiamato “Introducing…” il suo disco d’esordio come solista ma il personaggio era già discretamente conosciuto, almeno a chi segue con attenzione la scena. Nato a Baltimora, trasferitosi stabilmente a Brooklyn dopo avere suonato e studiato il Blues nel Mississippi ed esibitosi regolarmente in celebri club Folk come il Jalopy Theater di New York, è batterista e voce nei Durand Jones & Indications (o negli Indications di Durand Jones, fate voi), con cui ha realizzato due dischi negli ultimi due anni e mezzo (il terzo è in lavorazione mentre scriviamo).
In effetti, se una sera ricevi una telefonata da Dan Auerbach, che dice di volere lavorare in studio con te, tanto sconosciuto non devi essere. E così Aaron Frazer è volato a Nashville ad incontrare una delle due metà dei Black Keys, si sono rinchiusi nello studio di questo per quattro giorni e hanno tirato fuori un disco che hanno poi registrato in una settimana scarsa, con l’aiuto di una serie di session men dal curricolo infinito.
Spontaneità, serenità e libertà creativa hanno contraddistinto la lavorazione, stando a quello che ha detto Frazer e indubbiamente il fluire di queste canzoni e la loro innocenza quasi sbarazzina permettono anche a noi di capire che le cose potrebbero essere andate davvero così.
Dicevamo dei musicisti: ci sono membri dei Memphis Boy, cioè gente che ha lavorato, tra gli altri, con Dusty Springfield e Aretha Franklin; c’è il percussionista Sam Bacco (e si sente parecchio, nell’ottima costruzione ritmica di gran parte dei pezzi), oltre che tutta una serie di elementi ruotanti attorno ai Daptone Studios e alla Big Crown Records. E poi, come se non bastasse, uno come Russell Brown ha scritto con Aaron “You Don’t Wanna Be My Baby”, il delicato mid tempo che apre il disco, circonfuso di un’atmosfera romantica sapientemente creata dai fiati.
Si tratta di revival? Di quello sguardo nostalgico che sembra ormai caratterizzare una buona fetta dei dischi usciti negli ultimi anni, a dispetto del genere di appartenenza? Il diretto interessato giura di no, che non ha affatto voluto ricreare pedissequamente un’era e uno stile, ma che la tradizione ha rappresentato per lui solo un semplice elemento di ispirazione, per guardare poi alla contemporaneità, al Pop e all’Hip Pop di oggi. Lo stesso Auerbach, interrogato a proposito, ha detto di non aver voluto fare un disco retro bensì semplicemente aiutare Aaron a dare forma concreta alla sua musica.
Sarà. Intanto l’impressione, ascoltando le undici canzoni di “Introducing…”, è quella di un viaggio senza ritorno nel Soul degli anni ’70, un mondo dove imperava la Motown e artisti come Curtis Mayfield erano giganti assoluti. Un mondo che non è mai tramontato e che, anzi, negli ultimi anni è ritornato prepotentemente in voga, fondendosi e sporcandosi a più livelli con sonorità elettroniche ed influenze disparate, nei lavori di Sampha, Sohn, MorMor, Blood Orange, Curtis Harding e tanti altri (in Italia abbiamo Venerus, che ha seguito la ricetta dimostrando notevole personalità). Qui però c’è poca contaminazione, nessuno sperimentalismo; semmai, una cura al limite del filologico nel riprodurre certe sonorità e atmosfere, partendo appunto dal Soul per poi spaziare verso il Funk e il Rhythm and Blues, sempre con una grande attenzione ai dettagli.
La produzione, quella sì, pur essendo rispettosa dell’impronta sonora e per niente invasiva, risulta moderna e dinamica quanto basta. Ma d’altronde stiamo parlando del musicista di una band che ha fatto della retromania uno dei suoi principali marchi di fabbrica, era difficile aspettarsi il contrario.
Ad ogni modo, le canzoni sono ottime, ben scritte e magnificamente suonate, con le melodie che funzionano tutte e la voce di Aaron sempre al servizio delle canzoni, mai protagonista (sebbene a qualcuno potrebbe forse dare fastidio quel falsetto che si ostina ad usare per tutto il tempo).
Molto meglio quando si pigia sull’acceleratore e si insiste sul groove: “Bad News”, con le sue pulsazioni di basso, “Ride With Me”, col suo ritornello anthemico, “Over You”, che è uno degli episodi più diretti, sono davvero irresistibili.
Bellissimo anche come vengono utilizzati i vari strumenti, soprattutto piano e fiati, fondamentali nel ricamare il tessuto ritmico, come accade ad esempio in “If I Got It”; ma anche quando l’atmosfera si fa più romantica e arrivano le indispensabili ballate, il livello non scende: “Have Mercy”, molto minimale negli arrangiamenti e “Lover Girl”, per quanto fin troppo canonica, sono ottimi brani.
È un disco che a livello di testi non è per forza di cose incentrato su tematiche amorose ma che conserva una certa dose di attivismo politico, lo stesso Frazer in un’intervista ha citato il Gil Scott-Heron di “H2Ogate Blues”, come una delle sue principali fonti di ispirazione. Lì si parlava dell’America ferita dal caso Watergate, qui in ballo c’è soprattutto il destino del pianeta, con “Bad News” che parla di cambiamento climatico e “Ride With Me” che riprende la celebre immagine gospel del treno in corsa, trasformandola da allegoria di salvezza in metafora di un conto alla rovescia verso la distruzione.
Nel finale si recupera un po’ di pace con la jazzata “Leanin’ on your Everlasting Love”, che sia nel testo sia nel mood generale recupera il quasi omonimo Spiritual. Un brano leggermente diverso dagli altri, un commiato in un certo senso pieno di speranza e di delicatezza.
Nostalgico o meno, “Introducing…” rappresenta un ottimo modo per iniziare l’anno. Forse sarebbe meglio dire che ci sono dei linguaggi universali che, per quanto storicamente datati, non passano mai di moda. Il Soul è uno di questi e Aaron Frazer ne costituisce senza dubbio uno dei più promettenti esponenti contemporanei.