Probabilmente “Vivere o morire” di Motta era il disco più atteso, dopo quello di Calcutta, nell’universo in espansione che ci ostiniamo a definire “Indie italiano”. È uscito ad aprile, esattamente un anno dopo il concerto milanese con cui Francesco e la sua band si congedavano da cento e passa date in giro per la penisola, testimonianza di un esordio, “La fine dei vent’anni”, che aveva rivelato un talento vero, uno di quelli con tutte le credenziali per rimanere in sella.
Io non lo so se questo tanto sospirato secondo album riuscirà a mantenere alto l’hype attorno al musicista livornese. Di sicuro c’è che è diverso dal precedente, e tanto basta: la produzione di Taketo Gohara ha infarcito i nove brani di sonorità ariose, orchestrali, più vicine ad un certo cantautorato, laddove il precedente era forse più figlio di un rock istintivo e viscerale. Ma probabilmente questa “svolta” (se proprio così dobbiamo chiamarla) è funzionale ad una narrazione che si è fatta via via più intima e raccolta, scavando nel vissuto del personaggio narrante come prima non era ancora accaduto. È un disco dove Francesco ha deciso di mettersi più a nudo, di raccontare il suo passato remoto e recente con un’apertura e una sincerità a tratti anche disarmante, priva di quell’autocompiacimento sornione che ogni tanto affiorava nei vecchi pezzi. Saranno forse responsabili le sue recenti vicende sentimentali, con la rottura del rapporto con la fidanzata storica e l’inizio della relazione con Carolina Crescentini? Può anche darsi ma non ci interessa. L’importante è che sia la musica a parlare e la musica, in questo caso, riesce a farlo decisamente bene.
L’ho raggiunto al telefono in una caldissima giornata di inizio luglio, quando io ero in giro per Milano e lui probabilmente a casa sua, in attesa di partire per il tour estivo. È stata una chiacchierata breve ma abbastanza esaustiva, come avrete modo di leggere…
Dunque, il disco è uscito ormai da un po’ di mesi, quindi non mi va di partire subito a chiederti di questo, visto che ormai avrai risposto centinaia di volte alle stesse domande….
In realtà ho capito che le domande su questo disco sono molto più varie rispetto alle altre: con il precedente sono arrivato che, se dopo un anno e mezzo mi avessero chiesto ancora de “La fine dei vent’anni” mi sarei buttato dal terrazzo (ride NDA)! Non ce la facevo più a rispondere ad un certo tipo di domande! Invece per questo disco le sto trovando molto più varie o forse sono io che ho più cose da dire, non lo so…
Partirei comunque dai concerti, se sei d’accordo: purtroppo quando hai suonato a Milano ero al Primavera e quindi non ho ancora avuto modo di vedere questo nuovo spettacolo. Come sta andando?
Sicuramente rispetto all’ultimo concerto all’Alcatraz, mi sento molto più pronto ad affrontare certi palchi. Nonostante ci siano state delle bombe che mi sono esplose in mano un anno e mezzo fa, adesso mi sembra di essere nel posto giusto al momento giusto; è tanti anni che faccio questa gavetta e quindi adesso mi sento di essere pronto. Rispetto al concerto, alle sue dinamiche, diciamo che i pezzi nuovi e quelli de “La fine dei vent’anni” sono molto diversi tra loro però in qualche modo stanno bene insieme, creano un bell’amalgama. Piuttosto, è molto difficile a livello emotivo, questo concerto: passare da tutte le cose che ho detto prima a quelle che dico ora, all’interno di canzoni dove ho parlato anche molto della mia infanzia, arrivo alla fine che sono stremato, non ho più quella botta di adrenalina che avevo alla fine degli show del tour precedente. Adesso devo rimanere dieci minuti zitto da solo prima di potere continuare a parlare con le altre persone. Quindi è molto stressante, molto difficile però è anche molto più bello di prima!
Come ti sembra siano stati recepiti i pezzi nuovi dal pubblico?
Ho avuto dei feedback positivi, mi dicono che in tanti vengono proprio per sentire quelli. Io mi preoccupavo del contrario invece paradossalmente sembra stia andando bene. Anzi, direi che è stato quasi più difficile mettere dentro quelli vecchi, in questo concerto! C’è un bel pubblico, per me è bellissimo perché ci sono tante persone più grandi di me, tanti ragazzi… è molto variegato per cui questa cosa porta ad avere una parte del pubblico che vuole sentire certe canzoni, una parte che ne vuole sentire altre e questo crea una dinamica particolare che aiuta anche me nel ripercorrere la scaletta.
Hai appena fatto uscire un video per “Quello che siamo diventati”. Mi ha colpito questa idea di te ripreso allo specchio, dalla giovinezza alla vecchiaia. È interessante perché in questo disco mi pare ci sia soprattutto uno sguardo retrospettivo mentre invece qui hai scelto di giocare anche col futuro, in un certo qual modo, di immaginare ciò che potrà accadere…
Quel video l’abbiamo ripreso da un cortometraggio francese che mi è piaciuto tantissimo. Mi ha molto intrigato vedere il risultato di un invecchiamento fino a 50 anni. Devo dire che mi hanno voluto veramente bene, se hanno deciso di rappresentarmi così (ride NDA)! In generale, è un’idea semplice ma d’impatto: viene rappresentata una vita che si capisce che ad un certo punto è tormentata, attraversa un punto di difficoltà ma poi va a finire bene. Far finire bene le cose a volte può essere stucchevole ma penso che sia molto potente quando succede in modo spontaneo e sincero. In qualche modo mi sono immaginato felice, sempre più felice in questo percorso. È vero che nelle mie canzoni parlo spesso del passato ma ho sempre uno sguardo rivolto verso altre cose, ecco.
A me il disco è piaciuto, l’ho trovato molto interessante anche se si è un po’ perso quell’effetto sorpresa che era emerso col primo. Hai scelto di non farti più produrre da Riccardo Sinigallia e trovo che tu abbia fatto bene. Sicuramente c’è un vestito differente, si capisce che Taketo Gohara ci ha messo del suo ma allo stesso tempo ho trovato la tua scrittura più consapevole, come se tu adesso fossi più in grado di confrontarti con una dimensione più stabile, passami questa parola. Come se ora che la tua vita, mi pare, ha preso certi binari, questo si fosse riflesso nel modo di affrontare le canzoni…
È vero che se senti il disco, dalla prima all’ultima canzone, c’è una sorta di unica risoluzione, c’è una sintesi. In quel momento avevo anche altri pezzi, più aggressivi magari ma non ho voluto metterli perché avrebbero interrotto questo percorso. Per ora è così, ma comunque mi sono sempre tenuto diverse porte aperte e può darsi che ora del prossimo disco le cose possano cambiare. Sai, prima di fare i dischi penso sempre che andrò a fare un lavoro elettronico ma poi vado a finire da un’altra parte quindi non so (ride NDA)! Sinceramente ho sempre cercato di fare quello che sembrava più giusto per me, a prescindere dall’essere figo o meno, quindi penso di rimanere così!
Hai parlato di musica elettronica: in effetti nel primo brano hai un po’ adoperato quelle soluzioni, no?
Quello era un momento di passaggio, probabilmente stavo ancora pensando di fare un certo tipo di disco. C’è ancora una non risolutezza, c’è quel minuto di non cantato che però in sé ha un testo: sono io che decido di non cantare per poi dire delle cose. Quindi c’è questa idea di non risolto però è anche vero che il pezzo, girando su tre accordi e non su quattro, non ti viene a noia. Oddio, magari dopo un quarto d’ora sì (ride NDA) però diciamo che girando in tre, crea questo loop non risolto che costituisce l’esatta partenza per il disco nuovo.
Ho letto alcune tue interviste subito dopo l’uscita del disco, in cui hai parlato di un lavoro più sereno…
Sereno quando l’ho finito!
Volevo arrivare proprio qui, infatti: io personalmente l’ho trovato a tratti un lavoro molto amaro ma anche di “sfida”, se così si può dire. Penso ad esempio alla title track…
Di sfida non lo so. Direi piuttosto di accettazione dell’errore, di trasformazione dell’errore senza far finta che alcune cose non siano successe. Quello mi ha portato poi anche a guadagnarmi quella leggerezza che in alcuni pezzi poi c’è, tipo “La prima volta”, “E poi ci pensi un po’” ... ha molto senso, secondo me, la scaletta che c’è nel disco. È un percorso che ti porta progressivamente verso una leggerezza, che sfocia infine nell’ultimo pezzo che è sì triste ma che, almeno a me, riesce a far sentire meglio. O per lo meno mi ha fatto sentire meglio quando l’ho scritto! L’ultimo verso del disco, penso rappresenti una sorta di apertura ulteriore verso un qualcosa che, chissà, potrebbe poi concretizzarsi in un altro momento.
Il disco è uscito molto presto, rispetto a quello che ci si poteva aspettare. Ricordo che al tuo ultimo concerto all’Alcatraz, al momento dei saluti, si è avuta l’impressione che non ti avremmo rivisto per un po’. Invece, esattamente un anno dopo, sei arrivato con un nuovo lavoro. Il che vuol dire che il processo di lavorazione non ti ha preso poi molto tempo. È una cosa positiva, secondo me, perché significa che non hai avvertito la pressione di doverti ripetere a certi livelli, no?
La pressione la sentivo ma la sentivo per me, non rispetto alle aspettative degli altri. Semplicemente, quello era il momento per dire quelle cose, per spiegare quella situazione in quel determinato momento. Non so che cosa succederà dopo: il mio prossimo disco potrebbe uscire tra 15 anni come tra sei mesi. Ecco, tra sei mesi sicuramente no (ride NDA)! Però non mi do delle regole, anche se è chiaro che deve esserci dietro una certa disciplina nel lavoro che prima non avevo e che adesso ho molto di più; ma ci deve essere anche una consapevolezza di capire dove andare, quanto un giro di chitarra o una frase può finire effettivamente dentro il pezzo oppure abbia bisogno di un po’ di tempo per essere digerito… Ecco, diciamo che queste sono le cose che ho imparato a a fare meglio. Certo però che poi, dietro questa disciplina, dietro tutti questi trucchi, deve anche esserci un’urgenza di dire certe cose. Quando questa verrà meno, probabilmente verranno meno anche le mie canzoni.
In tutto questo Taketo ti ha aiutato molto, immagino…
Sì, ma al di là dei trucchi del mestiere, il più grande aiuto me l’ha dato per il fatto che lui è contento mentre fa i dischi, invece io no (ride NDA)! Lui ha questo entusiasmo per cui ogni tanto mi fa sentire un po’ scemo ma questo è anche il mio modo di fare i dischi, temo che non cambierà a breve, per il dispiacere di tutte le persone che mi stanno accanto…
Ultima battuta veloce: suonerai da qualche parte quest’estate, vero?
Certo! Partiremo l’8 luglio…
Qualche giorno dopo, consultando la sua pagina ufficiale, mi sono accorto che la data più comoda sarebbe stata quella di Collegno, nelle immediate vicinanze di Torino, nell’ambito di quel Flowers Festival che col passare degli anni sta diventando sempre più importante e che quest’anno ha in programmazione parecchi di quelli che al momento sono gli artisti più importanti del panorama indipendente italiano.
Il posto, situato in un’area molto piacevole all’interno del Parco della Certosa, è pieno di giovani, a confutazione del fatto che la musica di Motta non sia perfettamente allineata sui canoni che vanno maggiormente oggi. Vero, indubbiamente siamo di fronte ad una realtà di altro spessore e natura, ma la presenza di così tanti adolescenti, mescolati senza troppi problemi a tanti trentenni e a qualche quarantenne, dice che la sua musica è in grado di raggiungere platee variegate e che, anche per questo, vale la pena di essere presa in considerazione.
Non ci saranno troppi concerti, questa volta. Rispetto al biennio 2016-17, quando “La fine dei vent’anni” era stato accompagnato da un centinaio di date in giro per l’Italia, questa volta si è deciso di centellinare parecchio. Non so se sia dipeso da un riscontrato calo d’interesse (lo stesso Francesco, dal palco di Collegno, confessa che gli sarebbe piaciuto suonare di più ma che non si è potuto farlo) o da una oculata strategia di promozione, volta a non inflazionare il prodotto. Ma forse sono solo speculazioni: lo spettacolo a cui ho assistito questa sera è stato di livello altissimo e ha confermato tutte le parole di cui avete letto sopra.
La band è la stessa, con l’aggiunta di un percussionista e il sound che si sprigiona on stage è perfetto sin dalle primissime battute, quando i cinque si abbandonano per qualche minuto all’ipnotico giro di accordi che introduce “È quasi come essere felice”.
Francesco è in forma smagliante, salta e corre in continuazione lungo il palco, scambiando abbracci e cenni d’intesa coi suoi musicisti ed incita in continuazione il pubblico a fare sempre più casino.
Suoni perfetti, dicevamo, che fanno da contorno ad una band il cui affiatamento è ormai superfluo da sottolineare. Vero anche quel che lui diceva dei nuovi pezzi in rapporto ai vecchi: non si avvertono fratture, la setlist scorre in modo fluido anche perché la band riesce con la sua esecuzione a livellare la radicale differenza di produzione e arrangiamenti che c’è tra i due prodotti.
Ne risulta, paradossalmente, uno show più variegato, rispetto a quello dello scorso anno: meno potenza, forse, meno furia istintiva e più insistenza su tastiere e chitarre acustiche, in confronto al martellante gioco percussivo che c’era prima.
Certo, rimangono gli episodi ammantati di tribalismo e di elettricità (“Roma stasera”, “Prenditi quello che vuoi”) ma accanto ad essi stupisce la rilettura di certi vecchi brani (“Se continuiamo a correre” in questo nuovo contesto assume tutto un altro significato), mentre i nuovi pezzi, pur se molto più dinamici che nella versione in studio, rappresentano comunque momenti nel complesso maggiormente riflessivi.
Funziona tutto, comunque. Persino “Fango” dei Criminal Jokers, rimasta in scaletta perché parte indelebile di un passato che non si vuole cancellare. L’intesa tra musicisti e pubblico è perfetta e i novanta minuti abbondanti che dura il concerto scorrono via che quasi non ce ne accorgiamo.
La chiusura è affidata a “Mi parli di te”, il brano che Francesco ha dedicato a suo padre. Si percepisce tutta l’urgenza comunicativa di queste nuove canzoni e di come, effettivamente, cantarle rappresenti per lui un’esperienza del tutto diversa rispetto a quella de “La fine dei vent’anni”. Brano che, peraltro, arriva come secondo in scaletta ed è preceduto da un inequivocabile: “Ho scoperto che a trent’anni si sta da Dio”.
Ecco, speriamo di potergli sentire dire la stessa cosa tra altri dieci.