Non è mai facile parlare degli Interpol o, per lo meno, di quella che è stata ed è nel complesso la loro carriera. Troppo comodo, forse, cadere nei luoghi comuni: gli entusiasmi e le promesse suscitate da Turn on the Bright Lights, confermate alla grande da Antics, un po’ meno da Our Love to Admire (che rimane pur sempre un gran disco, soprattutto a risentirlo oggi) che potessero rappresentare la guida di un nuovo movimento che avrebbe rivisitato e rinverdito i fasti della New Wave e aperto nuovi affascinanti percorsi nella storia del rock alternativo.
Per carità, la storia non si cancella e quei primi tre dischi rimarranno per sempre, anche nel contesto di quel ribollente calderone che fu la scena newyorchese dei primi anni Duemila. Eppure, se si guarda a quel che è arrivato dopo, viene un po’ l’amaro in bocca: perché gli Interpol, per i mezzi che hanno dimostrato di avere, avrebbero potuto diventare davvero giganteschi.
Ci hanno invece pensato lavori non molto riusciti o, piuttosto, una scarsa propensione a trovare quel quid che avrebbe loro permesso di scalare le classifiche, ad infrangere il sogno. La verità è che già con El Pintor, in parte salutato come un ritorno alle origini, era finito tutto: era il 2015, gli interessi erano altri, la critica aveva da tempo etichettato Paul Banks e soci con la classica formula “non sono più quelli degli inizi”. Che se vuoi tagliare le gambe a una band non ce n’è una migliore.
Non che a loro sia mai importato molto, in realtà: i loro fan non li hanno mai abbandonati, viaggiano su numeri discreti in tutto il mondo e rimangono comunque un gruppo importante, di quelli che sono già stati in qualche modo storicizzati. Avrebbe potuto esserci di più? Sì, ma non è che bisogna per forza farne un dramma.
Io personalmente non li vedevo da un po’. L’ultima volta era stata nel 2018 a Londra, nell’ambito della giornata del BST Hyde Park organizzata da Robert Smith per festeggiare il quarantesimo anniversario dei Cure. Da allora sono usciti due dischi che non hanno certo fatto gridare al miracolo ma che hanno comunque certificato uno stato di forma più che discreto da parte del quartetto di New York.
Quella del Vittoriale è, se non vado errato, la prima data da headliner di un tour europeo che per ora li ha visti aprire per gli Smashing Pumpkins. In precedenza erano stati in Sud America, dove hanno tenuto alcuni concerti speciali per il ventesimo compleanno di Antics, che hanno suonato per intero. Sappiamo già che non ci toccherà una simile fortuna ma, per quanto mi riguarda, sono comunque molto curioso di rivedere il gruppo in azione dopo così tanto tempo, oltretutto in una location affascinante come quella dell’Anfiteatro del Vittoriale.
Quando arriviamo sul posto sta cadendo una pioggia leggera e in generale il meteo non promette nulla di buono. Si inizia puntualissimi, alle 21.15 spaccate, proprio nel tentativo di scongiurare la furia degli elementi e per fortuna alla fine verremo graziati.
La partenza è di quelle toste, con “C’Mere”, subito seguita dalla cavalcata di “Say Hello to the Angels”, a prospettare una scaletta incentrata sui vecchi brani. I suoni, qui solitamente impeccabili, non sono un granché: troppo alta la chitarra di Daniel Kessler (autore comunque di una prova maiuscola), la tastiera di Brandon Curtis persa nel muro di suono delle ritmiche, la voce di Paul Banks un po’ troppo dentro il mix. In più, il volume non è altissimo, così che la potenza di questo inizio risulta in parte smorzata. Migliorerà tutto nel corso della serata, ma purtroppo sono costretto a dire di aver sentito molto meglio in passato.
Al di là di questi inconvenienti, la prova dei nostri risulta convincente. Samuel Fogarino è stato operato alla cervicale ad ottobre per cui dietro le pelli troviamo Chris Broome, che lo aveva già sostituito in precedenza. Sarà probabilmente per questo che certe esecuzioni sembrano mancare un po’ di tiro, certamente molto precise ma leggermente rallentate.
Di nuovo, è un problema che affligge soprattutto la prima parte del concerto perché man mano che si va avanti e i cinque si scaldano, i ritmi si alzano e comincia a girare tutto decisamente meglio. Lo stesso Paul Banks, giacca di pelle nera di ordinanza e immancabili occhiali da sole, appare meno compassato del solito e, sebbene riduca al minimo l’interazione col pubblico (giusto la presentazione dei suoi compagni e l’annuncio di un paio di canzoni) appare di buon umore e contento di essere qui.
In ogni caso, potranno avere tutti i limiti del mondo in sede live, ma non dimentichiamo che gli Interpol hanno dalla loro un repertorio che non ammette discussioni; questa sera scelgono di giocare pesante ed inanellano un capolavoro dietro l’altro, saccheggiando i primi due dischi e concedendo molto poco alle cose recenti, nonostante siano ufficialmente ancora in tour per promuovere The Other Side of Make Believe. Che rimane comunque un buon disco, come certifica l’ottima versione di “Into the Night” di questa sera, purtroppo anche l’unica canzone che estrarranno da qui. Un solo brano anche dal precedente Marauder, quella “The Rover” che negli ultimi anni si è guadagnata una più che meritata credibilità.
Arriva invece a sorpresa “Lights”, da Interpol, un disco che non ho mai calcolato troppo, ed un pezzo che avevo totalmente dimenticato. Stupisce dunque dover constatare come sia stata una delle cose più belle della serata, un’esecuzione intensa e precisa, per un brano articolato e per nulla banale: che sia ora di riascoltarci anche questo album?
Bellissima anche “All the Rage Back Home”, uno di quei pezzi “recenti” (si fa per dire, visto che è del 2015) in grado di rivaleggiare coi grandi classici, e che in questa sede viene proposta in una versione davvero convincente, in una fase del concerto dove i nostri hanno iniziato a girare alla grande.
Per tutto il resto si va sul sicuro: “Obstacle 1”, “Pioneer to the Falls”, “Rest my Chemistry”, “Take you on a Cruise”, “Evil”, “No I in Threesome”, “Leif Erikson”, persino la chicca assoluta di “The New”; con dei titoli così, la portano a casa senza troppi problemi, l’energia è così tanta che le sedie cominciano a stare strette (in effetti, per quanto sia bello questo anfiteatro, stasera rimanere seduti è stato un bel sacrificio). Alla fine gli argini cedono e su “Slow Hands”, col suo ritornello trascinante, si alzano in piedi tutti, garantendo al set regolare la miglior conclusione possibile.
Nei bis ci sono ancora cartucce importanti da sparare: “NYC”, serenata decadente alla città dove hanno mosso i primi passi, “Roland” ed una “PDA” molto tirata, che chiude alla grande un’ora e mezza più che soddisfacente, nonostante i problemi sopra riportati.
Hanno forse perso qualche treno importante, gli Interpol, e quello che stanno facendo adesso non rende giustizia a quel che hanno fatto prima; eppure, scaletta di questo tour a parte, hanno scelto di non vivere di ricordi, portando avanti un discorso coerente che sembra soddisfarli appieno. Probabilmente è sufficiente così, al netto di tutti i “se” e i “ma” con cui abbiamo riempito questo articolo.
Credits Scaletta: https://www.anfiteatrodelvittoriale.it/tam-tam-2024/scalette-concerti/interpol/