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REVIEWSLE RECENSIONI
26/04/2024
Ride
Interplay
Giunti al terzo album post-reunion, con “Interplay” i Ride abbandonano lo shoegaze di cui sono stati alfieri per abbracciare nuove sonorità, tra elettronica e synth pop anni Ottanta.

Assieme a My Bloody Valentine, Slowdive, Lush, Catherine Wheel e Swervedriver, gli oxfordiani Ride sono considerati (giustamente) tra i giganti dello shoegaze, grazie ad album come Nowhere (1990) e Going Blank Again (1992). Il loro sound, all’apparenza così monolitico, ha però sempre celato le influenze più disparate, tanto da renderli quasi un’anomalia all’interno di una scena così codificata. Ecco quindi che nelle loro canzoni Andy Bell (chitarra e voce), Loz Colbert (batteria), Mark Gardener (voce e chitarra) e Steve Queralt (basso) hanno saputo far convivere sapientemente le armonie vocali e le chitarre a 12 corde dei Byrds, la batteria frenetica di Keith Moon, il basso melodico di Paul McCartney, una certa psichedelia chitarristica alla Stone Roses, atmosfere notturne figlie dei Cure e una propensione alla catarsi distorsiva tipica dei Sonic Youth.

Normale, quindi, che nei due lavori successivi i Ride abbiano ulteriormente sparigliato le carte, prima con un disco dall’alto tasso di psichedelia come Carnival of Light (1994) e poi salendo (come la gran parte delle band coeve, in special modo quelle che gravitavano come loro attorno alla Creation) sul carro degli Oasis con un album ancora oggi controverso come Tarantula (1996). Un percorso, questo, che, dopo lo scioglimento del 1996, ha visto Andy Bell seguire con convinzione la via del Britpop, prima con i suoi Hurricane #1 e poi entrando a far parte della corte dei fratelli Gallagher come collaboratore di lusso.

 

Ecco quindi che, una volta tornati assieme nel 2014, i Ride abbiano volto fortemente riprendere il loro percorso di sperimentazione, collaborando con il mago dell’elettronica Erol Alkan negli album Weather Diaries (2017) e This Is Not a Safe Place (2019). Per il terzo lavoro post-reunion, i Ride hanno deciso di allontanarsi con ancora più decisione dalle origini shoegaze, pescando a piene mani dagli anni Ottanta, il decennio che nella pratica ha formato musicalmente i quattro musicisti di Oxford.

Da questo punto di vista, Interplay è in un certo senso una specie di prequel della raccolta di EP Smile (1990), dove i Ride omaggiano e rielaborano il sound delle band che li hanno influenzati da teenager, come i Tears for Fears di The Hurtling, gli Smiths, gli Echo & The Bunnymen di Ocean Rain, i Fall, gli U2 di The Unforgettable Fire, gli House of Love, i Cocteau Twins e i Jesus and Mary Chain di Psychocandy.

 

Prodotto dalla band con Richie Kennedy e mixato dal veterano Claudius Mittendorfer, Interplay vede quindi i Ride mettere in secondo piano le chitarre in favore dei sintetizzatori, come dimostra la veste elettronica data all’opener “Peace Sign”. E anche la successiva “Last Frontier” non è da meno, una canzone così influenzata dai New Order che il basso sembra suonato da Peter Hook e da un momento all’altro ci si aspetta che arrivi Bernard Sumner a cantare il ritornello. E se “I Came to See the Wreck” è chiaramente influenzata dai Depeche Mode di Violator e dai Cure di Disintegration, l’arrangiamento sintetico di “Monaco” richiama alla mente addirittura i Duran Duran di Seven and the Ragged Tiger. Il pezzo più curioso del lotto, però, è “Sunrise Chaser”, che riesce a mettere insieme il Peter Gabriel di So con i King Crimson di Discipline.

Ovviamente lo shoegaze di cui i Ride sono stati alfieri non è totalmente dimenticato dalla band, come dimostrano pezzi come “Light in a Quiet Room”, “Last Night I Went Somewhere to Dream”, “Midnight Rider” e “Portland Rocks”, che con la loro progressione di accordi, le chitarre sognanti e le inconfondibili armonie vocali, riportano l’ascoltatore immediatamente agli inizi degli anni Novanta. Più particolari, invece, sono canzoni come la spettrale e acustica “Stay Free”, i sette minuti di “Essaouira”, che lambisce più volte territori trip hop, e la conclusiva “Yesterday is Just a Song”, che mette insieme Gary Numan e Brian Eno. Il finale perfetto per un album che vede i quattro di Oxford procedere imperterriti per la loro strada, interessati più a mostrarsi ancora vivi dal punto di vista creativo che a sedersi sugli allori e riproporre sempre la stessa ricetta sonora.