Come tanti, troppi, ragazzini di oggi, Simon, Louise e Paul, detto il Profeta, devono fare i conti con le loro paure e i loro traumi. Quando si incontrano in una clinica per la cura dell’ansia, il Profeta li convince che hanno una missione. Devono fuggire da lí e costruire la loro utopia, un luogo dove avere una seconda possibilità, lontano da quegli adulti che li hanno traditi lasciandogli un mondo allo sbando. Però, come in una fiaba contemporanea oscura e adrenalinica, per riuscirvi dovranno prima sconfiggere lo Stregone, un miliardario crudele e intoccabile, e salvare la ragazza che tiene prigioniera, principessa o drago che sia.
La premessa è d’obbligo: questo romanzo può scorrere velocissimo e divertire il lettore, oppure può essere una gincana, il cui percorso, lungo, tortuoso e irto di ostacoli, imporrà a chi legge numerose soste. Per riflettere, e porsi domande, a volte anche scomode. Dipende da chi si approccia alla lettura e da come lo fa.
La storia è semplice, il contesto è distopico (ma non inverosimile) i personaggi tratteggiati meravigliosamente. Mentre il mondo brucia (letteralmente) a causa di irreversibili cambiamenti climatici, e negli Stati Uniti cresce la tensione in una società sempre più vicina alla guerra civile, i giovani iniziano a suicidarsi, vittime di quella che sembra un’epidemia senza controllo. In questo drammatico scenario, un gruppo di adolescenti, guidati da un ragazzino che si fa chiamare il Profeta, parte per una missione rischiosissima: salvare una giovane tenuta prigioniera da un miliardario senza scrupoli.
Una trama all’apparenza quasi banale, se non fosse che Hawley è un incantatore, che mischia le carte, depista, inganna, in un susseguirsi di colpi di scena che fanno palpitare. D’altra parte, lo scrittore americano, non è solo un abile romanziere, ma anche uno sceneggiatore di successo (sua la sceneggiatura della serie Fargo, per citarne una), che sa come tenere in pugno il lettore. Ecco, allora, che Inno Americano si presenta come una lettura stratificata, nelle cui pagine si può trovare un po’ di tutto: thriller, action, melodramma, on the road, analisi sociale, speculazione filosofica, generi, questi, tenuti insieme da una prosa vivace, asciutta quando il ritmo si fa incalzante, ricca quando le pause riflessive arrestano il fluire degli eventi, e sempre ironica, pungente, beffarda e corrosiva.
Il contesto, come dicevamo, è distopico, ma la visione non è molto lontana da un futuro che, per quanto atterrisca, è pronto a bussare alle nostre porte. D’altra parte, questo romanzo è figlio della pandemia e del lockdown (cosa sono i suicidi di massa se non una sorta di virus pandemico?), e di una società, quella americana, costretta ancora a convivere con il razzismo, l’omofobia, le moleste sessuali, la violenza e la discriminazione come sistema (Trump ha fatto danni irreversibili sdoganando i peggiori istinti della gente) e, più in generale, con una forma sempre più dilagante di misantropia (interessante, nel finale, una digressione sul concetto di “empatia”).
Perché, dunque, i giovani si tolgono la vita? E’ questa la grande domanda che si pone Hawley nelle cinquecentocinquanta pagine del romanzo. Un domanda a cui è difficile dare una risposta, ma che impone comunque una riflessione sul mondo in cui viviamo. In atto, c’è un evidente scontro generazionale, tra gli adulti che hanno fatto del profitto e della scalata sociale un mantra esistenziale, e gli adolescenti, smarriti, ansiosi, incapaci di affrontare la vita, vittime di una società che li confonde, che vorrebbe proteggerli e, invece, ne violenta i sogni, le aspirazioni, le speranze. Perché il controllo è un’illusione e il caos domina incontrastato. I giovani si tolgono la vita perché è stato tolto loro il diritto di sbagliare, di prendere decisioni (i protagonisti del romanzo acquistano consapevolezza ogni volta che sono liberi di scegliere), di guardare al futuro, di costruire la normalità, di morire.
Il mondo può essere salvato? Certo che sì, e nel modo più semplice possibile: “Guardate, dissero, la soluzione è semplice. Quelli che hanno di più devono condividere con quelli che hanno di meno. Quelli che sono malati devono essere curati. Quelli che inquinano l’aria e il mare, le foreste e le pianure devono smettere di farlo. Date, dissero al mondo, non prendete.”. Una riflessione talmente ovvia da sembrare banale. Eppure, questa ovvietà, dalla quale passa il futuro dell’uomo, è pura, irrealizzabile, utopia, cioè l’esatto contrario del mondo distopico (e incredibilmente concreto) in cui si svolge la trama del romanzo. I giovani protagonisti del romanzo, però, lo hanno capito, e il finale di Inno Americano apre alla speranza (non dico altro per evitare spoiler).
Non so se si possa parlare di capolavoro, ma di sicuro questo, che è il quinto romanzo di Hawley, ci va molto vicino. Non fosse altro per quel suo continuo pungolare la sensibilità di chi legge: se hai una coscienza, non puoi più tirarti indietro, è il momento di metterla alla prova.
“Ecco tutto. La mia storia è finita. Il resto tocca voi”