Per l’artista gallese il periodo trascorso dall’uscita del suo primo lavoro, nel 2017, è stato piuttosto drammatico tanto che, sin dal primo comunicato stampa, ha lasciato intendere che non è per nulla scontato che questo disco sia alla fine uscito.
Nell’ambiente, comunque, era attesissimo. Il successo dell’esordio, unitamente alle collaborazioni illustri con Jon Hopkins, St. Vincent e Bjork, hanno fatto salire enormemente le sue quotazioni e l’hanno di fatto consacrata come uno dei migliori nomi della nuova scena elettronica.
“Inner Song”, il cui titolo è ispirato all’omonimo lavoro del 1972 del celebre jazzista Alan Silva, rappresenta dunque una rinascita non scontata che allo stesso tempo è avvenuta in punta di piedi, con tanto lavoro sommerso, fatto senza sapere esattamente come e se si sarebbe concretizzato.
La fase decisiva alla fine si è svolta in fretta: un mese soltanto, l’inverno scorso, sempre assieme al fido collaboratore James Greenwood. Nessuna pressione, nessuna ossessione di trovare il suono perfetto come accaduto per il primo lavoro: ci si è rilassati e si è cercato, semplicemente, di andare dietro a quello che man mano sarebbe successo.
L’inizio è spiazzante: quella cover di “Arpeggi” dei Radiohead, trasformata in un brano Techno d’avanguardia, senza le parti vocali ma con l’originale che fa ancora in qualche modo capolino nel mood generale.
Un disco che, molto più del precedente, riesce a fondere la componente elettronica con quella incentrata sulla forma canzone, in un insieme equilibrato e coerente, che ha nel primo singolo “On” la sua sintesi perfetta: delicata e sognante la prima parte, da trance ipnotica la seconda. Per il resto, c’è una continua alternanza di tracce cantate e strumentali, con le prime che vedono un deciso scatto in avanti nell’interpretazione vocale e nella scrittura, dal Dream Pop di “L.I.N.E” all’atmosfera sospesa di “Re-Wild”, passando per lo splendido crescendo ritmico di “Night”, che nella prima parte ha l’andamento di un’elegia amorosa (“It feels so good to be alone with you”). Altrettanto riuscita è la parte strumentale: ascoltando le varie “Flow”, “Melt!” e “Jeanette” non si esita ad accostare la Olsen a nomi più blasonati come il già citato Hopkins, Four Tet e Caribou.
Su tutto svetta poi la collaborazione con John Cale nella magnifica “Corner of my Sky”, lunga “ninnananna psichedelica”, come l’ha definita l’autrice, dove il celebre compositore recita in inglese e gallese, parole che hanno a che fare con le comuni radici dei due e la storia della loro terra.
A chiudere, la dolcezza notturna di “Wake Up”, altro episodio fortunato di un disco che decisamente non possiede punti deboli. Un grandissimo ritorno e, ci si augura, il punto di partenza per un prosieguo di carriera ancora più fortunato.