Attivi dal 2014, i gallesi Those Damn Crows si stanno costruendo, lentamente ma inesorabilmente, la fama di essere una delle migliori band da stadio in circolazione. Se è vero che il loro secondo album, Point Of No Return, ha scalato le classifiche del Regno Unito fino alla quattordicesima piazza grazie a un pugno di canzoni irresistibili, la forza del quintetto britannico emerge soprattutto da infuocate esibizioni live, con cui si sono conquistati sempre maggiori fette di pubblico e l’attenzione mediatica della stampa nazionale.
Ci si aspettava molto dalla band, soprattutto dopo il successo del predecessore e il lungo periodo pandemico, che avrebbe potuto tarpare le ali dei corvi, riposizionandoli nelle posizioni subalterne della scena inglese. Invece, questo nuovo Inhale/Exhale ha consolidato il successo del gruppo originario di Bridgent, spingendolo fino alla terza posizione delle chart inglesi, risultato, questo, che è valso loro un nuovo tour in veste di headliner.
D’altra parte, questa nuova fatica, vede la band riproporre la consueta formula vincente, ma corroborata da decisivi passi avanti sia in fase di scrittura che sotto il profilo degli arrangiamenti e della produzione. Quello dei Those Damn Crows, per chi non li conoscesse, è un hard rock melodico dal grande appeal radiofonico, fatto di riff vibranti e ganci melodici irresistibili, che li vedono muoversi per gli stessi territori frequentati da Alter Bridge e Shinedown, per citare almeno due delle band più affini ai gallesi.
Tuttavia, nonostante il taglio melodico ed energico delle composizioni, il disco, nato durante i giorni cupi della pandemia e del lockdown, affronta tematiche profonde. A partire dal titolo, che richiama in modo esplicito l’atto del respirare, la copertina è evidentemente simbolica: una gabbia toracica divisa in due, una metà annerita e lugubre, l’altra colorata e adornata di fiori, su cui leggiadre volano le farfalle. E’ dunque inevitabile il riferimento al virus, che è lo spunto iniziale di liriche che indagano sulla reazione umana alle avversità e delle emozioni, positive o negative, che finiscono inevitabilmente per dare un ritmo diverso al nostro respiro.
Inhale/Exhale non cresce ascolto dopo ascolto, perché è incredibilmente immediato, lo si afferra subito, è contagioso, entra sotto pelle, e pur con la consapevolezza di quanto siano furbette queste canzoni, così ruffiane nel loro sviluppo musicale ed emotivo, si finisce per essere inesorabilmente attratti da una scaletta che, pur con tutti i limiti della proposta, non ha un solo momento di cedimento. In queste dieci tracce si raggruma il suono di una band che ha fatto consapevolmente una scelta stilistica e sa esattamente come fare centro per conquistarsi sempre più fan. Ogni brano ha così tanta personalità che finisce per ronzare in testa fin dal primo momento: l’opener "Fill The Void", la canzone più oscura del lotto, il singolone "Takedown", il cui ritornello si manda a memoria in una frazione di secondo, la “quasi” ballata "This Time I'm Ready", che cova sotto traccia, cresce ed esplode, prima di spegnersi in placide note di pianoforte, e le atmosfere sinistre della conclusiva "Waiting For Me", sono alcuni dei momenti più riusciti dell’album.
Se è inevitabile che l'attenzione si concentri sul timbro esuberante del cantante Shane Greenhall, non va però dimenticata la solida band alle sue spalle, la spina dorsale strutturata dal batterista Ronnie Huxford e dal bassista Lloyd Wood, e il lavoro delle due chitarre di Ian "Shiner" Thomas e David Winchurch, che alternano rifinitura a bordate esplosive. L’eccellente produzione di Dan Weller e il mixaggio di Phil Gornell infiocchettano un disco che di certo non inventa la ruota, ma sa farla girare molto bene.