Il fattore che accomuna i numerosissimi punti vendita dei brand della fast fashion non è solo la linea dei capi di abbigliamento disegnati in occidente, realizzati per pochi spiccioli nei paesi in cui la manodopera ha costi vergognosamente bassi, per una successiva esposizione nelle vetrine dei centri commerciali, a nostro uso e consumo.
Se siete entrati almeno una volta in uno di questi negozi di moda avrete sicuramente fatto caso alla musica diffusa per tutto il tempo della vostra permanenza, come se gli stipendi da fame e i ritmi devastanti a cui è soggetto il personale addetto alla vendita non fossero già sufficientemente penalizzanti.
Una house music altrettanto usa e getta quanto le tonnellate di roba ammassate su scaffali e appendini che incrocia alcune semplici ma efficaci coordinate: a) ritmo omologato per proiettarci con l’immaginazione sul dancefloor, tutti imbellettati grazie a quei capi il cui acquisto stiamo valutando; b) armonie costruite per favorire l’astrazione con adeguata leggerezza al mondo della seduzione pronta all’uso e all’eterna gioventù; c) voci e timbri pensati come naturale espressione di una generazione che non sarà ricordata da nessuno e per nulla di eclatante se non per essersi dilungata troppo su di sé, in barba alla salvaguardia del posto in cui è nata e cresciuta e in cui è destinata a estinguersi a causa dell’impatto ambientale di un sistema economico tutt’altro che sostenibile, ma almeno distinguibile dal resto della storia del genere umano grazie alle pose e alle espressioni interpretate sui selfie, pretenziosamente e smaccatamente indie-pop, per di più indossando vestiti pagati due lire.
Ma in tutto questo cosa c’entrano i Friendly Fires? Nulla, se non che, ascoltando il loro nuovo album “Inflorescent”, sembra di farsi un giro da Zara o H&M in un giorno di saldi qualunque con l’aggravante di non trovare la taglia, della pessima figura che restituiscono gli specchi del guardaroba alla nostra discutibile forma fisica, di subire musica di merda profusa dalle casse posizionate sul soffitto, di qualche cultore del genere che tende lo smartphone verso l’alto, nella vana speranza che almeno Shazam riesca a distinguere un brano da quello successivo.
Il trio inglese che ha impiegato la componente anonimo-danzereccia in modo velato nell’omonimo album di esordio del 2008 e in maniera già più definita in “Pala”, il secondo disco del 2011, questa volta ha aperto al massimo i rubinetti dell’house-music pubblicando undici tracce dal carattere inequivocabile. Questo per dire che nessuno investirà un centesimo comprando un disco fatto così.
Non per questo “Inflorescent” deve essere il pretesto per condannare i Friendly Fires a un processo di rimozione definitiva dei nostri ascolti, anche se la tentazione è forte. Scordatevi gli spunti punk-funk di “Paris”. Dimenticate il lustro alternative-dance con cui avevano vestito una hit discotecara come “Your love” di Jamie Principle.
Quello che trasmette “Inflorescent” è tutto un Wham-tropicana, movimenti comandati, ammiccamenti jamiro-jazzy, aperture rassicuranti di sintetizzatori, la veloce e ardimentosa complicazione ritmica di “Sleeptalking”, pa-pa-pa-papparà, casse rigorosamente dritte su percussioni vere e finte, il velato inacidimento di “Lack of Love”, le piste da ballo all’aperto a fine serata, tutti ubriachi, e la conclusione convincente di “Run the Wild Flowers”, l’unico episodio finalmente di qualità che induce a dare la sufficienza di incoraggiamento a una band che, visti i precedenti, mantiene inalterati tutti i presupposti per un ripensamento e un ritorno alla dignità artistica con cui è stata fondata. Ciò non toglie la necessità di una recensione superficiale, in perfetta linea con la condotta futile e trasparente di questo disco e gli ascolti che è in grado di indurre.