Che la Norvegia sia esclusivamente la patria del metal più estremo è un luogo comune tanto radicato quanto privo di fondamento. Certo, in quelle lande gelide le sonorità black metal di gruppi come Mayhem, Immortal e Darkthrone, per citare qualche nome, hanno trovato un terreno fertile e una nutrita schiera di seguaci. La Norvegia, tuttavia, è anche la terra che ha visto nascere il pop degli A-ah e dei Kings Of Convenience, l’avant garde degli Ulver, il rock psichedelico dei Motorpsycho, il folk oscuro dei Wardruna e la new age dei Secret Garden. Tutti nomi che, nel corso degli anni, hanno acquisito lustro internazionale, riscuotendo grande successo anche al di fuori dei confini nazionali. Più di nicchia, ma artisticamente non meno importanti, tra le band provenienti dalla fredda Norvegia, ci sono anche i Madrugada, band formatasi a Stokmarknes, cittadina di quattromila anime collocata fra i ghiacci del nord del paese. La band, nata nel 1993, dopo un lungo periodo di assestamento, tra cambi di nome e di line up, raggiunge la propria definitiva identità nel 1997, con Sivert Hoyem alla voce, Frode Jacobsen al basso, Robert Buras alla chitarra e Jon Lauvland Pettersen alla batteria. Trovata l’impostazione definitiva, il gruppo lavora a lungo sulle canzoni che entreranno a far parte del disco d’esordio, Industrial Silence, che vedrà la luce nel 1999, riscuotendo fin da subito un ottimo successo in patria (cinquantamila copie vendute) e conquistando lentamente anche la scena internazionale.
Difficile etichettare la musica di una band che, seppur è evidente che paghi qualche debito verso il passato, riesce al contempo a definire fin da subito uno stile e un suono personalissimo. Grazie a un lavoro coeso e coerente in sede di produzione, le tredici canzoni in scaletta sono figlie di un ibrido in cui confluiscono apocalittici scenari goth folk, echi psichedelici che richiamano alla mente i Doors, suggestioni roots rock alla Chris Isaak, elettrici fremiti alt rock, oscure trame blues e inaspettati deragliamenti post punk. Il tutto compresso entro i confini di una metrica ipnotica, crepuscolare, afflitta da una visione depressa, a tratti catatonica, di un’America trasfigurata in una miniatura scandinava, livida e introspettiva.
Emozioni a non finire per un disco in cui gli strumenti scelti sono decisivi per la creazione di atmosfere e suoni cupi, legati imprescindibilmente alla terra di origine, la Norvegia, dove la divisione tra il giorno e la notte non è la stessa che siamo abituati a vivere noi: ciò ha influito sicuramente parecchio nell’incisione e nelle liriche, ammantate di manifesta oscurità e improvvisi tiepidi albori.
Ascoltando le varie tracce non mancano, però, echi continui, rimandi alla cultura musicale americana e anglosassone con chitarre acide, distorte, l’utilizzo del glockenspiel e, in alcuni casi, di un estraniante pump organ come sottofondo.
Oltre a una certa durezza, con un potente basso in primo piano, c’è spazio comunque per la ricerca della melodia che sfocia in splendide ballate e accanto all’incedere potente della batteria trovano rifugio anche campane, campanelline e lo Xylophono.
Tali contrasti, volendo ben analizzare, sono già evidenti nel titolo in sé, Silenzio Industriale, stuzzicante ossimoro che ben si adatta alla raccolta di canzoni.
L’inizio è di quelli che non si scordano. Vocal è il manifesto dell’album: batteria, chitarra e basso partono forte e per oltre un minuto la fanno da padrone in attesa della voce avvolgente dalle tonalità baritonali di Sivert Høyem e subito i paragoni si sprecano… Il suo timbro particolare e il modo di cantare ricordano un poco Liam McKahey, Nick Cave, Chris Isaak Tom Hingley, Matt Berninger, Jim Morrison, ma alla fine in verità si tratta solo di una ricerca di somiglianze tutto sommato pleonastica, quello che conta è godere di come la trama della composizione viva in simbiosi con le corde vocali dell’artista. Il testo è oscuro, emblematico, profetico. Giunge un momento nella vita in cui bisogna correre alla ricerca di qualcosa, smettere di non osare e aspettare, ma forse si ha anche un po’ di timore nel percorso, non sempre la meta è chiara e si rischia di essere ostacolati…
“You better run, you better run
you better not wait too long…
…I buried my head in that pillow
for a million days
so, oh, oh well, I’m sorry
but I do not care to wait
dare not walk through the light
dare not walk through the light.”
“Faresti meglio a correre, a correre
non aspettare troppo…
…Ho sepolto la mia testa in quel cuscino
per un milione di giorni, oh, oh
oh allora, mi spiace, ma non m’importa di aspettare
non oso passare attraverso la luce
non oso passare attraverso la luce”.
Beautyproof invece comincia lenta, con un giro di chitarra ipnotico, abbellito successivamente da una slide piangente, opera dell’altro genio del gruppo, il compianto Robert Burås. E verso la fine picchia duro di brutto, senza avvisaglie, come una prepotente tempesta giunta all’improvviso, dopo una giornata di sole.
L’atmosfera si calma grazie a Shine, ballatona che strizza l’occhio ai Radiohead se tornassero scevri di elettronica. Fa capolino anche un violino, suonato come fosse una grattugia sul canale sinistro da Ohm, uno dei musicisti addizionali presenti nell’album. Questa scelta aggiunge qualcosa di inquietante alla composizione e fa da volano alla crepuscolare Higher, capolavoro dark con un lungo finale magnetico in cui le parole “Go honey, be a holiday…” vengono ripetute ossessivamente.
La quinta traccia è interamente dal vivo, come lo saranno anche le ultime due nella raccolta, quasi a voler enfatizzare il fatto che a volte non sia necessario aggiungere inutili orpelli alla loro musica, viene scelto di lasciar trasparire una certa fluidità. Qui Jon Lauvland Pettersen, che con la sua drumming ability caratterizza notevolmente il suono dei Madrugada, è spettacolare con campane e percussioni varie. Sostiene letteralmente il riff di pump organ prima che la pedal steel di Bob Egan (altro strumentista ospite del progetto) e soprattutto la sei corde acida di Burås, fan dichiarato dei Led Zeppelin, prendano il sopravvento. L’interpretazione di Sivert è magistrale, si potrebbe pensare alla risurrezione dei Doors nel 1999, ma non c’è tempo per riflettere sui tempi andati, perché qui c’è nuova vita con Strange Colour Blue, un altro monumento all’irrequietezza, data dalla forte pioggia e da quello strano colore blu che la circonda, metafora di ansia e tristezza…
“Oh everybody's sleeping now
an industrial silence, and
and the rain, it will keep hammering down from overhead
now there's a blue, blue strange colour blue
let me dream of me and you
oh while the rain keeps coming down
hard…”
“Oh tutti stanno dormendo ora
c’è un silenzio industriale, e
e la pioggia, continuerà a martellare giù dall’alto
ora c’è un blu, blu, strano colore blu
lasciami sognare di me e di te
oh, mentre la pioggia continua a battere forte…”
Viene citato l’Industrial Silence che dà il nome all’intero album, mentre a metà traccia la batteria simula il rumore di un acquazzone, la chitarra incendia l’aria e il basso di Frode Jacobsen è al top. Nel finale una spolverata di violino appesantisce, invece di alleggerire, la tensione, riuscendo perfettamente nell’intento. Altro pezzo memorabile.
Dopo tanto tuonare è il momento di due brani tranquilli. Ascoltando in cuffia This Old House e chiudendo gli occhi si potrebbe immaginare che sia sopraggiunto Eddie Vedder a cantare sopra una canzone di Springsteen (a cui si pensa subito per la presenza di armonica e glockenspiel) o Young. Le influenze date dalle praterie musicali dell’America sono evidenti, ma servono a palesare una piacevole duttilità dei norvegesi, alle prese poi con Electric, altra ballatona forse anch’essa un po’ troppo derivativa, ma accarezzata per tutto il tragitto da un incantevole organo.
In Salt si respira un’aria western, con Hammond e campane più alcuni vocal overdubs a enfatizzare il cantato. Il solo di chitarra è entusiasmante, perfettamente inerente all’atmosfera.
Belladonna è un’altra composizione tosta, il cui testo sembra la rivelazione di una notte d’amore, ma in realtà potrebbe avere un doppio senso e ammiccare al piacere dell’uso di droghe, mentre Norwegian Hammerworks Corp. è una stupefacente cavalcata rock caratterizzata dal parlato di Høyem con la chicca dell’utilizzo della sega musicale da parte del poliedrico Ohm. Simile al suono del theremin, si adatta perfettamente all’aura oscura che circonda il lungo “stream of consciousness” di Sivert e fa ben percepire il senso di vuoto descritto dalle parole dell’autore, soprattutto quando, durante la canzone, la musica si ferma per qualche istante per poi ripartire. Il racconto claustrofobico del cantante, che narra di quanto si possa venir soffocati dal male di vivere, toccando con un dito la depressione, lascia trasparire la speranza che l’amore possa dare una scossa positiva a una routine che ammazza la vita, ma probabilmente tutto ciò da solo non è sufficiente.
“Let me tell you about the way the hammer moves
the hammer goes up and down and hits the nail, on the head each time
that's the point…
…this nail is bent and broken, straighten it out with the hands of love…”
“Lasciatemi raccontare del modo in cui si muove il martello
il martello sale e scende e colpisce il chiodo, ogni volta sulla capocchia
questo è il punto…
questo chiodo è ormai storto e rotto, rimettilo a posto con le mani dell’amore…”
Il fatto che poi al termine del lungo testo ricompaia solo la prima parte di quanto sopra citato fa pensare, appunto, che, nonostante tutto, le cose non possano cambiare in meglio. E’ un’amara riflessione per chi all’epoca aveva solo ventidue anni, carica di metafore e immagini forti.
Siamo arrivati agli ultimi due brani, caratterizzati dall’essere registrati in presa diretta. Stilisticamente si distinguono e differiscono dai precedenti in scaletta. Quite Emotional è un lentone quasi romantico guidato dall’Hammond organ di Jon Terje Rovedal, altro musicista aggregato al progetto. Si riallaccia un poco ai Pink Floyd del periodo di Wish You Were Here e nel finale affiora pure una chitarrina un poco ammiccante al blues.
Viene invece voglia di definire Terraplane uno pseudo jazz, alimentato dal simil-falsetto abbozzato dal leader della band, ma indipendentemente da questo pensiero, ciò che colpisce è la facilità di passare da un genere musicale all’altro e lasciare il segno. Il pezzo è la degna chiusura di un album epico in cui il gruppo è riuscito perfettamente a mettere in musica i testi, a tratti angoscianti, del cantante. Emerge e si scopre decisamente il tormento interiore post adolescenziale di un ragazzo che ha già dovuto affrontare non solo le gioie, ma anche il male di vivere, e ha saputo trasmettere le sue sensazioni in tredici meravigliose canzoni.
Con la collaborazione di Nicola Chinellato