Ci ha già pensato Mattia Marzi su Rockol a definire il cosiddetto “Indie italiano” un fenomeno ormai esclusivamente riservato ai nostalgici. Non so se abbia ragione in toto ma su una cosa mi trova d’accordo: la nostra è un’epoca che non sa più soffermarsi sul presente, che ha bisogno di autoalimentare un senso perenne di nostalgia ai fini di giustificare la propria esistenza. Ce lo siamo vissuti, il successo stratosferico e per molti versi inaspettato di quello che non era nient’altro che Pop da classifica con un background “alternativo” (perché l’Indie vero è stato ed è una cosa completamente diversa, ma questo non devo spiegarvelo io).
Eppure, adesso è molto più comodo iniziare le celebrazioni di un’epoca leggendaria (immagino che sarà uno dei tanti iperbolici aggettivi utilizzati) piuttosto che analizzare con cura lo stato attuale degli artisti che si richiamano a questa corrente.
Io, da parte mia, non mi scompongo: Mainstream di Calcutta compirà 10 anni a novembre ma quella non è mai stata roba mia, non ha mai parlato alla mia vita, alla mia esperienza; ricordo perfettamente che la raccontai e ne scrissi riuscendo sempre a mantenere un certo distacco, coinvolto forse un po’ di più solo dal fenomeno I Cani, ma perché Contessa aveva una cifra da controcultura senza dubbio più evidente, ed ebbe oltretutto il buon senso di sparire prima di fare come i Thegiornalisti di “Riccione”, che squarciarono il cielo di carta (perdonate la citazione intellettuale) mostrando cosa ci fosse realmente dietro quella scena che tutti ancora si ostinavano a chiamare “indipendente”.
Tutto questo per dire che sì, ho amato Mainstream e ho amato forse ancora di più Polaroid dell’improbabile duo Carl Brave/Franco126, ma sempre come si ama qualcosa che non è mai del tutto roba che ci appartiene.
E quindi Gazzelle. Che pubblica il suo quinto disco e decide di chiamarlo Indi, una parola che non si capisce se sia una presa in giro o una provocazione (ma se ci si ricorda che il suo secondo si intitolava Punk forse potremmo avere capito il giochino).
Che cosa è rimasto, dell’alter ego di Flavio Pardini, otto anni dopo l’esordio col botto di Superbattito? È rimasto quello che deve rimanere: un cantautore con le sue canzoni, la sua poetica, la sua impronta ben riconoscibile. Che nei primi versi di “Noi no” canti: “Quante volte hai visto andarsene la felicità/e il 2017, sai, non ritornerà”, conta fino ad un certo punto. La nostalgia qui è solo un espediente retorico, a contare sono canzoni dal mood malinconico, confezionate sempre come al solito: nel tempo la ruvidità iniziale ha lasciato il posto ad una maggior cura in sede di arrangiamenti e produzione, ma parliamo pur sempre di un trattamento minimale, fatto da chitarre, qualche synth, un pianoforte elettrico ed una sezione ritmica il più discreta possibile.
Il vestito scarno, il tono per certi versi dimesso, ma un’attenzione particolare alla melodia, all’hook irresistibile, al ritornello da cantare a squarciagola. Lo hanno detto in tanti pensando di essere denigratori, ma qui secondo me bisogna dirlo in positivo: Gazzelle e Calcutta sono punti di riferimento di una generazione di cantautori che ha imparato benissimo la lezione di Vasco Rossi e Venditti. Meno bombastici, certo, un po’ più “straccioni” nel modo di presentarsi, ma la capacità di scrivere hit, quella è assolutamente la stessa.
Da questo punto di vista, Indi è un disco di Gazzelle fatto e finito, più simile ai primi due che ai due successivi, perché ha tutto sommato riportato la scrittura su binari più consueti, dopo che nel passato recente c’erano stati tentativi di abbracciare la dimensione Urban (vedi i peraltro ottimi featuring di Thasup).
I brani posseggono, chi più chi meno, un coefficiente di ispirazione più che soddisfacente, a riprova di una capacità di scrittura che negli anni, pur con qualche comprensibile flessione, non si è per nulla affievolita. “Grattacieli meteoriti gli angeli”, “Come il pane”, “Mezzo secondo”, “Da capo a 12” e ovviamente il singolo “Noi no” sono quelle che, almeno a mio parere, risultano più a fuoco e più in grado di infiammare il pubblico in sede live (che è sempre stata una dimensione a Flavio molto congeniale).
Semmai si potrebbe discutere sul fatto che, molto più degli altri, si tratti di un disco appiattito sulle ballate, nonché se fosse opportuno, ad un anno di distanza, di inserire anche il brano sanremese “Tutto qui”, che pur essendo a conti fatti una delle migliori, appare decisamente fuori tempo massimo (ma ormai si sa che per moltissimi artisti italiani gli album sono divenuti soprattutto un pretesto per fare da contenitore al singoli).
Indi è un buon disco ma non possiamo usarlo come prova dello stato di salute del cosiddetto It Pop: non c’è mai stata nessuna rivoluzione collettiva, semmai una manciata di nomi che hanno combinato grandi cose e che, come in questo caso, continuano a farlo. È tutta già finito, come ho detto all’inizio, la scena è piena di artisti a metà tra l’inutile e l’insignificante, non importa che in alcuni casi siano anche effettivamente bravi, per loro non c’è posto e probabilmente non c’è mai stato.
Sopravvivono e sopravviveranno solo coloro che, come Calcutta e Gazzelle, appartengono ad un genere ma sono soprattutto più talentuosi di altri.
Le due date estive a San Siro e al Circo Massimo, un anno dopo lo scollinamento dell’Olimpico, fanno parte senza dubbio di un processo fisiologico e non sono certo la spia di un avvenuto cambio generazionale del proprio pubblico. Quando tutto questo sarà davvero scomparso, certi artisti rimarranno, anche se con i loro fan sempre più vecchi, a recitare quel ruolo che oggi appartiene a gente come Ligabue o Cremonini.