Non sarà un’intervista questa, ve lo preannuncio.
Una sera ho suonato al Teatro Arciliuto di Roma. Come cantautore. Non c’eri quella sera, caro Bax. Un poco mi sei mancato. Speravo di trovarti ma avevi l’influenza. Enzo Samaritani mi si è fatto vicino con la grandezza di un uomo che ha dentro tanto, quel tanto che non so neanche da dove cominciare per raccontarlo… e mi ha detto di leggere “Gli imperdonabili” di Cristina Campo. L’ho fatto il giorno dopo e ho faticato a digerire certe verità, poetiche e pesanti come macigni. Gli artisti sono imperdonabili: questo ho riportato a casa. Non li possiamo perdonare del loro continuo correre su strade che non esistono, inseguendo sogni troppo più grandi di loro. Ma allo stesso tempo non possiamo chiedere a questi commessi viaggiatori di restare sul cemento delle strade battute dal potere costituito. E non posso chiederlo a Bax, o Ernesto Bassignano se più vi piace.
E a questo suo nuovo disco non possiamo concedere perdono…
Ernesto Bassignano da maestro torna a fare la sua musica ed è una canzone che pesa di parole e di poesia, pesa e non fa finta di pesare. Pesa di dettagli e di gusto, pesa nell’impegno sociale che leva il fiato anche quando si fa scherzoso. Intitola il tutto “Il mestiere di vivere”. Quello di vivere è un mestiere che probabilmente non si finirà mai di capire anche ad un’età come la sua, che ora non è più quella di quando firmò la sua prima uscita in pubblico: correva l’anno 1973 e per la Ariston pubblicò “Ma…”
Fate un po’ voi i conti di quanti sono gli anni che Lui ha dedicato alla musica.
Ho ascoltato questo disco così tante volte che spesso recito a memoria le parole e le melodie… e li ho trovati ingredienti tutti eleganti, tutti veri, tutti sinceri. Tasselli trasparenti dove tutto è di pari importanza persino quando a “giocare” con Bax ci sono artisti del calibro di David Riondino. Tutto ha il suo posto e tutto contribuisce al messaggio. Antico mestiere artigiano che non cerca di farsi novità né si ostina nel celebrare sempre il solito passato… è semplicemente se stesso, anzi direi quasi necessario a se stesso. Com’è stata necessaria questa chiacchierata che alla fine non ho saputo riportare sulle didascaliche informazioni d’ufficio ma è divenuto più un incontro randagio e istintivo tra un eterno ragazzino e il maestro della canzone d’autore.
E parlo della canzone d’autore cari amici di Loudd, quella che ha varie forme e misure, quella che esiste e resiste, quella a cui oggi è stata levata attenzione per lasciare posto alla distesa anonima e omologata di una fila di burattini tutti uguali ben prestanti (e altrettanto ben prestati) alle funzioni delle nuove frontiere dittatoriali di questo marketing mainstream. E non siate banali nel giudicarci invidiosi o colpevoli di rancore. Ogni tempo ha il suo linguaggio. Non è questo il tempo di un certo tipo di canzone d’autore e mi sta bene. Questo lo accetto. Quello che non accetto è che al suo posto (come al posto di tanti altri generi di arte) abbia preso spazio una banalità stilistica e compositiva in cui solo l’ignoranza e l’indifferenza trovano una coerente rappresentazione. E non accetterò mai che vengano chiamati artista e poeta chi è figlio e fantoccio di un sistema che sfrutta questa pochezza camuffandola per arte e per poesia. Questa è una violenza che tutti voi per primi accogliete, ignoranti come ci siamo ridotti tutti, che non ricordiamo più neanche chi siano scrittori come Cesare Pavese… tutti noi impegnati come siamo a saper fare le storie sui Social in cui ripetiamo a vanvera le quattro rime baciate di un burattino qualunque delle televisioni commerciali. Lo stesso che dopo qualche settimana avrà lasciato posto ad un suo clone… e la giostra continua sempre allo stesso modo.
Non è invidia. Non siate così banali. È resistenza.
Agli imperdonabili - che per brevità chiameremo artisti - dico grazie di resistere e di farmi sentire un poco meno solo… io che artista non lo sono.
Aria fresca ai polmoni e buon sangue si fa quando girano dischi come quest’ultima prova partigiana del maestro Ernesto Bassignano.
Che emozione e che onore ritrovarti. Ti chiamo maestro, diversamente non mi viene da fare. Forse ti ricorderai di me…
M i ricordo eccome… di te come di tutti gli altri mille cantautori con voci basse e nasali e immagini e parole d’autore, abbandonati a se stessi in questo maledetto Paese popparolo ignorante e crudele con chiunque tenti la poesia…
Oggi guardo un mondo alla deriva. La spiritualità, la cultura, la forma delle cose, il gusto di chicchessia chiamato a giudicare ogni cosa. L’educazione è inesistente, la formazione è un’utopia. L’arte è il gioco effimero della scena. Non altro. Da questo disco porto a casa la parola resistenza…
Resistenza… sì… appunto. Il nostro attuale mestiere di vivere tra cattiveria, odio, sottocultura, pochezza, trash, infantilismo, povertà di mezzi e concetti…chi come me ha visto, fatto e vissuto, praticamente resiste al lasciarsi andare e farla finita con sogni e speranze. Chi come me ha passato mezzo secolo a lottare per quella che chiamavamo “cultura alternativa” oggi è stanco e disilluso, a volte rabbioso. Ma non molla perché è fatto così… è “operatore culturale organico” naturalmente e giullare verticale a vita. Va verso la fine parlando, scrivendo, opponendosi, prendendo capocciate con il gusto di prenderle e non lamentarsi perché esse sono appunto un mestiere di vivere assegnato… un compito… sono il credere nell’uomo a tutti i costi, nonostante tutto.
Da Cesare Pavese ho sempre raccolto i colori tenui dei pastelli, come tanti ovviamente. Così ecco i colori tenui che ritrovo nell'estetica delle canzoni di questo disco. Da Pavese, ancora, ho sempre raccolto quel mio personalissimo senso di nostalgia. Ad esempio, l’immagine dei cadaveri dei soldati ancora sepolti su quella collina colorata a pastelli, manco a dirlo… per me sono simbologie e metafore fortissime della società di oggi che però le colline, piene di centri commerciali, le colora con tratti digitali. Ma questa è la mia chiave di lettura. Di nuovo il concetto di resistenza nell’usare i colori a pastello mentre tutti dipingono ormai al computer. Quindi da questo disco rivelo un forte contrato tra Pavese e il nostro futuro. Contrasto… tra ieri e oggi…
Io scrivo a mano, disegno, scarabocchio, appunto su mille foglietti… qualche volta diventano canzoni, qualche volta restano lì… volano cercando il vento tentando di andar su, di elevarsi al di sopra di questa attualità di slogan e telegiornali scrausi, facce carine che leggono fregnacce scritte da fregnaccioni pagati per tagliare le Ansa, non pensare e non volare mai..
In questo singolo “Amiamoci di più” (e non solo, ci tengo a precisare) mi arriva un “rimprovero” saggio di chi ha camminato tanto e vede noialtri di oggi impegnati subito a volare. Dovremmo tornare a camminare, che ormai neanche quello sappiamo fare più. Che poi in fondo sembri quasi rimpiangere quel tempo in cui, Modugno ci ha insegnato, l’uomo sognava di volare per celebrare la sua felicità di esistere. Questa è un’altra parola che mi hai lasciato… volare…
“Calpesta la tua roccia, coltiva grano e vino… le tue ragioni non tradirle più”.
Mimmo spalancava le braccia e volava in un cielo infinito… vorrei che volassimo tutti ma con le radici dei nostri piedi al contempo piantate nella terra a sapere, ricordare, vivere storia, libri, film, emozioni, lotte e speranze. Ecco: decollare sopra le meschinità attuali ma portandoci su le scope di Miracolo a Milano, a cercare un filo di sole in mezzo ad una nuova umanità…
Un figlio oggi quanti padri ha? Mi chiedo… quanti sacerdoti di vita ci sono, quante pubblicità del benessere, quanta informazione pronta a plasmare e ad annientare il potere critico. Ti sento commosso quando parli di tuo figlio. E, portandola via dal titolo, l’altra parola è occhi: trovo che, a parte l’essere figli, siamo prima di tutti ciechi, non dalla nascita, ma nella crescita. Ciechi lo diventiamo e anche con molta fretta. Ma per camminare servono gli occhi…
Poveri ragazzi, povero figlio mio… chissà dove sei… quante canne e quante birre e quante speranze buttate… in quale parte del mondo cerchi te stesso lontano da me, dalle mie sgridate e dalle mie opzioni marxiane e poveracce pure loro, che nascondano a loro volta frustrazioni decennali e sogni infranti… poveri ragazzi figli del nulla e votati al nulla, con gli occhi persi sul telefonino...
Potrei continuare a lungo. Potrei chiederti di qualche deriva “jazz” o di qualche deriva “pop”. Potrei chiederti, riportandoti finalmente al ruolo di un grande saggio, quale sei, chi e cosa ci resta da ascoltare per diventare artisti e non semplici burattini dell’estetica, per noi che siamo ancora sporchi di latte e abbiamo fretta di volare… potrei continuare col chiederti se dopo tanta carriera si impara questo mestiere di vivere. Ma la vera cosa che più di tante mi ha commosso è quella campana che suona. Suona per tanti di noi e tanti di voi che ancora assieme restate a fare resistenza. Ma qualcuno manca, gli hai dedicato le tue parole… potrei chiederti chi è… ma io ti lancio la mia ultima parola, perché opere come questa oggi mancano, come mancano le attenzioni che meritano, come mancano gli spazi che ormai gli sono dovuti. Manca proprio il dovere etico di dare alle persone cose buone da mangiare. L’ultima mia parola, maestro Bax, è mancanza… che questo disco me la fa capire proprio tanto...
Questa, grazie a te, Paolo, non è un’intervista. È un incrociarsi di voli e sogni. È un trattino del nostro mestiere di vivere comune di poveri diavoli circondati come i soldati di Custer da indiani gatti che giocano col topo prima di sterminarlo. Abbiamo scambiato parole e fatto un trattino di strada assieme… al diavolo i dischi e le nostre serate alla ricerca di qualcuno che ascolti ancora la canzone d’autore… e scusa se è poco… bene così… ad maiora…