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REVIEWSLE RECENSIONI
25/06/2019
W.H. Lung
Incidental Music
Eccoci qui, vi presento un altro dei miei probabili dischi dell’anno. E a questo punto, al di là di quelli che sono i gusti personali, sacrosanti e differenti per ciascuno, può essere utile far notare un paio di cose: la prima, scontatissima ma mai banale da ricordare, è che il fattore originalità nella musica contemporanea non conta più nulla.

È così da inizio millennio, probabilmente anche da prima e sarebbe meglio tenerlo presente ed accettarlo. Lo dico perché troppo spesso sento liquidare dischi, belli o brutti che siano, con il giudizio: “La solita roba”. Va benissimo, è giusto dirlo ma bisogna chiarirsi sul significato dell’espressione. Perché laddove sottintendesse un: “Voglio sentire qualcosa di mai sentito prima” credo che questo non succederà mai più.

La seconda cosa, meno scontata ma anch’essa ripetuta parecchio, è che alla fin fine, lo vogliate o no, la libertà creativa del periodo 1978-82, quella del cosiddetto “Post Punk” (che vuol dire tutto e niente ma almeno ci si capisce) rimane ancora oggi una delle più importanti fonti d’ispirazione per i ragazzi di oggi, non importa che qui da noi si noti poco, anche se comunque pure da noi un po’ succede così.

Non sarà un caso che due dei lavori più incensati e chiacchierati del 2019, “Dogrel” dei Fontaines D.C. e “Twilight Splendour” degli Housewives provengano, seppur in modo diverso, da quell’universo tematico. E che siano entrambi tra i miei dischi dell’anno è un problema esclusivamente mio ma ci tenevo comunque a farvelo sapere.

Ora, io non lo so se questo “Incidental Music”, opera prima del terzetto di Manchester (ma dai? Che strana coincidenza) W. H. Lung, rimarrà in eterno negli annali della musica indipendente. Ve lo ricordate “A Corpse Wired For Sound” dei Merchandise? No? Perfetto. Ciò non toglie che quello fosse un disco enorme, uno degli aggiornamenti migliori del manuale Wave di inizio anni ’80, lo dissi allora e lo ribadisco oggi, non importa se alla fine non se l’è cagato nessuno.

Probabilmente con questi ragazzini andrà diversamente, perché con un solo brano pubblicato (“Inspiration!”, che è anche uno dei pezzi forti dell’album) avevano già preso parte a parecchi festival importanti, in Inghilterra e non. Ad ogni modo, del successo commerciale al momento mi interessa poco. Parliamo di un disco clamoroso e tanto dovrebbe bastare.

Cosa ci sia di tanto stupefacente è presto detto: nulla. La band non fa altro che mandare a memoria la lezione del Krautrock, inserendovi quel tocco psichedelico e martellante tipico degli Hookworms e non dimenticandosi della carica e dell’esplosione ritmica e percussiva degli LCD Soundsystem, il cui spettro aleggia in parecchi punti di questo lavoro.

Niente di nuovo sotto il sole dunque, musica che è una citazione dopo l’altra ma che è fatta talmente bene, confezionata in maniera talmente fresca, che risulta impossibile non abbandonarsi alle ali dell’entusiasmo.

Basterebbe l’opener “Simpatico People”, dieci minuti di crescendo, pulsazioni ossessive, cavalcate di basso e Synth, linee vocali sgraziate ma irresistibili, per farci capire di essere di fronte a qualcosa di davvero potente.

I tre lavorano tantissimo in studio, confezionando i brani in ogni dettaglio, aggiungendo strato su strato in modo molto simile a come fa James Murphy con la sua creatura. Allo stesso tempo però, lo spettro sonoro è meno profondo di quello del collettivo newyorchese, ci sono soprattutto i sintetizzatori in primo piano, le chitarre che svolgono un lavoro egregio ma che spesso stanno sullo sfondo ed una sezione ritmica che, come è giusto che accada in questo genere, rappresenta il vero centro propulsivo.

Così come mostrato a suo tempo dai Neu!, la chiave di ogni episodio è la ripetizione, con ogni pezzo che utilizza un unico nucleo melodico che si gonfia a poco a poco, aggiungendo nuovi elementi e diventando sempre più incandescente, finché non esplode in una danza liberatoria.

Accade sempre, anche in quei pezzi, come “Second Death of My Face” of “Overnight Phenomenon”, che hanno un ritmo più lento o come “WANT”, con un’impronta leggermente più orchestrale.

Per il resto, la lunga introduzione dell’altrettanto lunga “Nothing Is” è forse quella che più fa capire la bravura e la consapevolezza di questi ragazzi, giovanissimi eppure già così tanto padroni dei propri mezzi.

Ripeto, adesso il problema non è che tutti impazziscano per i W.H. Lung, anche se da certi segni si potrebbe anche scommetterci sopra. Il problema è, piuttosto, comprendere come con ingredienti vecchi di quarant’anni si possano ancora preparare ricette meravigliose, se si amano quegli ingredienti e se si conosce bene il procedimento.

Da Manchester per il momento è tutto.


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