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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
11/06/2024
Live Report
In The Meadows, 08/06/2024, Dublino
I Lankum hanno organizzato In The Meadows, un festival di un giorno nella loro Dublino, nella cornice affascinante del Royal Hospital Kilmainham, sede del museo di arte contemporanea, in cui hanno scelto personalmente tutti i gruppi partecipanti. Un'occasione a dir poco da non perdere. Com'è stato? Venire a scoprirlo!

False Lankum era stato il mio disco del 2023 e già durante la scorsa estate avevo cercato di vedere la band irlandese dal vivo. Non ero riuscito ad andare a Ravenna per il Beaches Brew ed avevo già organizzato tutto per la data di Pisa a luglio ma poi il gruppo ha deciso di cancellarla (a quanto pare c'è uno di loro che non ama troppo andare in tour, ne hanno annullate diverse anche negli scorsi mesi) e mi sono ritrovato a mani vuote. Sono riuscito miracolosamente a recuperarli al Primavera Sound, oltretutto in una location che ne ha valorizzato all'ennesima potenza le già immense capacità; nel frattempo però il gruppo aveva annunciato In The Meadows, un festival di un giorno nella loro Dublino, di cui si sarebbero occupati della curatela, scegliendo cioè personalmente tutti i gruppi che vi avrebbero suonato.

I Lankum a casa loro, nella cornice affascinante del Royal Hospital Kilmainham, sede del museo di arte contemporanea, alle prese con un bill validissimo, composto in parte di nomi che è difficile, se non impossibile, vedere dalle nostre parti. Ho approfittato di alcuni incastri favorevoli e, ancora in debito di sonno dal Primavera, sono partito.

 

Partiamo dal posto. Situato a pochi chilometri dal centro storico, non lontano dalle rive del fiume Liffey e raggiungibile a piedi con una gradevole passeggiata dove si incontrano, tra le altre cose, la fabbrica della birra, il Brazen Head, che è il pub più antico d'Irlanda (dodicesimo secolo, a quanto pare) e le celebri ex prigioni (chi ha visto Michael Collins e Nel nome del padre se le ricorderà senz'altro). Quello che non sarei mai riuscito ad immaginare è che una volta varcati i cancelli e superato il perimetro dell’edificio si apre una vasta area verde, sia pianeggiante sia collinare, dove sono stati sistemati tre palchi, due al coperto (West Stage e In the Middle Stage), sotto tendoni modello circo, e uno, il principale (East Stage), all'aperto e dalle dimensioni decisamente ragguardevoli.

Tutto attorno, stand di cibo e bevande (birra e sidro) tutti rigorosamente cashless (e niente furti tipo Token, ovviamente), servizi igienici numerosissimi e postazioni tattiche con rubinetti da cui sgorgava acqua potabile, ovviamente gratis.

Se soprassediamo sulle file infinite per cui bere era impossibile (a meno di perdersi i concerti) mentre mangiare solo un po' meno disagevole, stiamo parlando di un qualcosa che in Italia non vedremo mai.

E attenzione, non lo dico solo perché da noi esistono solo i "grandi eventi" su cui lucrare su chiunque senza ritegno (anche se, concedetemelo, siamo forse più dalle parti della circonvenzione di incapace) ma anche perché manca un pubblico curioso e motivato, mentre di contro siamo zeppi di gente che va a vedere i sempre più vecchi miti della sua giovinezza per rinverdire i bei tempi andati (siamo seri per una volta: al di fuori di cose indefinibili come gli Ac/Dc a Reggio Emilia e i Metallica all'ippodromo, la musica dal vivo in Italia è quasi tecnicamente morta).

Ora, a Dublino, per un headliner che sì, porta avanti la tradizione musicale irlandese ma lo fa in una maniera molto poco spendibile da un ascoltatore poco esperto, e per una manciata di act di cui i più conosciuti erano Mogwai e Black Country New Road, quanta gente ci sarà stata, secondo voi? Non ho accesso a numeri ufficiali (non so neppure se ci siano, al momento, i numeri ufficiali) ma gli occhi ce li ho: ad una rapida stima, diverse migliaia, probabilmente si sono toccate addirittura le diecimila presenze.

Avete capito bene: diecimila persone per vedere i Lankum. Sono di Dublino, certo; ma è altrettanto vero che tutto ciò non sarebbe mai successo, se non esistesse un'utenza in possesso di gusti e interessi musicali che da noi ce li sogniamo.

Non immaginatevi però tutto questo quadro idilliaco: il posto, in rapporto alla gente intervenuta, non è grandissimo; se da una parte i concerti si seguono più che comodamente (ai Lankum siamo arrivati nelle prime file subito dopo il set dei Black Country, New Road, terminato appena venti minuti prima su un altro palco; qui nessuno ha la smania di conquistare le posizioni migliori) dall'altra, non manca comunque una buona dose di persone intente a chiacchierare amabilmente, spaccando le palle a chi vorrebbe ascoltare. Niente di paragonabile al Primavera, attenzione; tuttavia, con un'offerta di questo tipo, non mi sarei aspettato una quota così alta di persone disinteressate.

Purtroppo, ad un paio di giorni dalla partenza, l’organizzazione ha pubblicato lo schedule delle esibizioni, e si è scoperto che, come ad un qualunque festival, gli artisti avrebbero suonato su più palchi in contemporanea, e dunque non si sarebbe riuscito a vedere tutto (lo so che questa è la norma, ma non so perché mi ero illuso che, accadendo tutto in un giorno e non essendoci un numero enorme di act, i clash sarebbero stati evitati).

 

Lankum

 

Si inizia alle 15.30 col West Stage che è l’unico palco a far partire la programmazione: di conseguenza, andiamo a vedere Mohammad Syfkhan, curdo originario della Siria ma dal 2016 in Irlanda come rifugiato politico, dopo che suo padre era stato ucciso dall’Isis due anni prima. Suona il bouzouki e di fatto la sua proposta è interamente strumentale ed immersa nelle tradizioni della sua terra d’origine. Ciò significa che, al di là di una tecnica decisamente invidiabile, ai nostri orecchi le melodie risultano spesso ripetitive; aggiungiamo la presenza di basi preregistrate di pessima qualità, e l’effetto “suonatore casuale alla stazione della metro” risulta assicurato. Ovviamente è molto di più di questo e probabilmente la presenza di una band avrebbe reso il tutto molto più godibile. Peccato, perché la sua allegria è decisamente comunicativa, evidenzia il ruolo della musica come ponte tra culture, anche alla luce della sua storia drammatica.

Rimango mezz’ora, poi mi sposto sul palco principale, dove è iniziato il set di Cormac Begley. Tra i migliori esponenti di concertina (la tipica fisarmonica utilizzata nelle danze irlandesi) del suo paese, ci delizia con un set fatto essenzialmente di musiche da ballo, inframmezzate da qualche tema elegiaco. C’è solo lui col suo strumento ma l’effetto è magicamente suggestivo e la sua simpatia rapisce il pubblico, già parecchio numeroso, anche se per il momento, dato anche il sole battente (una rarità assoluta da queste parti) preferisce rimanere svaccato sull’erba.

 

Anche qui dopo mezz’ora mi sposto, perché sull’In The Middle Stage è il turno di Ana Palidrome. Anche lei irlandese, ha pubblicato per ora un solo singolo, “Sorry a Million” ma dopo aver ascoltato le altre cose che ha proposto dal vivo, non vedo l’ora che esca il disco d’esordio. Indie Folk con una certa contaminazione elettronica e con un feeling ipnotico e vagamente lisergico che lo rende davvero affascinante. Risulterà tra le esibizioni migliori della giornata ma dovrò lasciare in anticipo, visto che nel frattempo sul West Stage è di scena John Francis Flynn, vale a dire l’altro motivo, oltre ai Lankum, della mia presenza a Dublino.

L’ex Skipper’s Alley fa parte di quella scena irlandese in costante crescita che ha preso il Folk tradizionale e lo ha ibridato con la Drone Music, declinandolo con un approccio sperimentale e contemporaneo che lo ha fatto apprezzare anche ad un pubblico che normalmente segue altro. È un fenomeno che il successo incredibile dell’ultimo disco dei Lankum e in una certa misura anche questa prima edizione di In The Meadows ha certificato in pieno; se poi aggiungiamo che in Irlanda la musica tradizionale è ancora presente a tutti i livelli ed apprezzata anche dalle giovani generazioni, si può capire come mai il tendone sia già stracolma di gente nonostante siano solo le 17.

John Francis Flynn si presenta in assetto a trio (batteria/Synth e contrabbasso, con lui che ovviamente suona la chitarra) e suona per un’ora, presentando una selezione dei suoi due album solisti, con particolare attenzione per l’ultimo, straordinario, Look Over The Wall, See The Sky. Il suono è più scarno ed in parte più ruvido rispetto alle versioni in studio, ma anche così l’effetto è notevole, grazie anche ad un timbro vocale profondo ed altamente suggestivo. Peccato solo non essere riuscito a capire nulla di quello che ha detto tra un brano e l’altro visto che il fatto di esibirsi a casa sua, lo ha portato ad utilizzare una cadenza decisamente proibitiva per uno straniero. Molti i momenti indimenticabili nel tempo che ha disposizione, da un’ipnotica e ritmata “Mole in The Ground”, fino ad una commovente “Dirty Old Town”, suonata da solo al termine del set. Se continuerà così, può anche darsi che ne sentiremo parlare anche dalle nostre parti.

 

John Francis Flynn

 

Nel frattempo i This is the Kit hanno già preso posizione sull’East Stage e quindi faccio una corsa lì, riuscendo a guadagnare con facilità le prime file. Non avevo mai visto dal vivo la band di Winchester e sono rimasto veramente colpito. Il loro è un Alt Folk piuttosto complesso ed articolato, con melodie ricercate ed una struttura ritmica spesso ai confini col Jazz. L’ultimo disco, Careful of Your Keepers, ha se possibile elevato le capacità di scrittura di Kate Stables, così che i nuovi pezzi, a fianco a quelli dell’altrettanto eccellente Off Off On rendono la loro esibizione davvero indimenticabile, nonostante fosse in pieno giorno su un palco grosso, con tutti i limiti del caso. Non hanno la potenza comunicativa dei Big Thief e proprio per questo, temo, dalle nostre parti faremo fatica a vederli; il talento, però, è assolutamente lo stesso ed è un peccato che in tanti non se ne siano accorti.

Sarebbe stato bello vedere anche i Mercury Rev, che sono appena tornati con un nuovo singolo dopo tanti anni, ma il loro concerto sul West Stage è già iniziato da un po’, inoltre a breve ci sarà il Tara Clarkin Trio sull’In the Middle, per cui sarebbe inutile tentare di avvicinarsi. Mi concedo solo un ascolto di pochi minuti, dall’ingresso del tendone, abbastanza per capire che i suoni sono perfetti e che loro stanno suonando più potenti che mai, risultando davvero in gran forma. Speriamo davvero che passino da noi dopo l’uscita del disco.

Il Tara Clerkin Trio, dicevo. È stato annunciato all’ultimo momento, creando una tremenda sovrapposizione con i Mogwai, che alle 19.30 si esibiranno sul palco principale. Che fare? Guardare per mezz’ora questi giovani jazzisti di Bristol per poi spostarmi? Ma così mi sarei perso i Black Country, New Road che, speravo, avrebbero presentato un po’ di materiale inedito, visto che sono inattivi da un anno circa. Alla fine ho optato per seguire interamente i giovani e lasciare perdere Stu Braithwaite e soci, avendoli già visti diverse volte e avendo senza dubbio più possibilità di ribeccarli in seguito (al di là della data a Bologna del 15 luglio, in Italia sono praticamente di casa).

 

Tara Clerkin ha fondato il suo gruppo dieci anni fa, assieme a compagni di università e all’inizio erano in otto, poi piano piano hanno abbandonato tutti e sono rimasti solo in tre. On The Turning Ground, uscito l’anno scorso, è il loro secondo EP ed è essenzialmente il motivo per cui sono qui a vederli, visto che il loro mix di Jazz ed elettronica minimale mi aveva colpito parecchio. Sul palco lavorano molto con la loop station, con Tara che si occupa dei Synth (più qualche rapida incursione al clarinetto), dirige gli altri due e poi mette assieme il prodotto delle loro improvvisazioni. La batteria lavora molto, e crea i pattern adatti per composizioni che in sede live perdono molto della componente Jazz, privilegiando nuclei melodici basilari e ripetuti fino all’eccesso. Partono un po’ lentamente, quasi impacciati, poi nella parte centrale decollano, si mostrano finalmente a loro agio e fanno sentire le cose migliori.

Peccato solo che l’inizio dei Mogwai, coi loro proverbiali volumi altissimi, li costringa a variare un po’ i programmi, puntando molto di più su beat rumorosi e ritmi ballabili (temo che l’anno prossimo bisognerà rivedere di parecchio la disposizione dei palchi, visto che non si è trattato dell’unica interferenza della giornata). Terminano con una decina di minuti di anticipo ed è un peccato, perché nonostante tutti i limiti, hanno dimostrato di essere davvero promettenti.

 

Tara Clarkin Trio

 

Il West Stage si è nel frattempo riempito per i Black Country, New Road, con tantissimi giovani tra i presenti, a testimonianza di un hype nei loro confronti che non si è ancora esaurito. Il collettivo britannico è fermo da alcuni mesi e la speranza era di ascoltare qualche cosa di nuovo. Detto fatto, una buona metà del set è rappresentata da canzoni inedite, che si muovono sulla falsariga di quelle contenute sul Live At Bush Hall ma che sembrano nel complesso più elaborate, lunghe nella durata e con una struttura cangiante ed in costante evoluzione, al confine con un certo Progressive Rock. I punti fermi sono ancora le voci di May Kershaw e Tyler Hyde (quest’ultima dotata del timbro più interessante, a mio parere) e il violino di Georgia Ellery (che nel frattempo sta avendo una carriera parallela nei Jockstrap), mentre il sax di Lewis Evans, qui a dire il vero piuttosto basso di volume, costituisce un affascinante contrappunto.

In generale la loro prestazione è ottima, forse la più convincente di quelle a cui ho avuto modo di assistere finora; c’è un amalgama, un’espressività ed una potenza che prima facevano a capolino solo a tratti, così che danno l’impressione di avere finalmente trovato la quadratura del cerchio, a due anni e mezzo dall’abbandono di Isaac Wood. Attendiamo il disco, ma la loro scelta di continuare ugualmente oggi appare più che mai sensata.

 

Quando sull’East Stage arrivano finalmente i Lankum, accompagnati dal suono di un drone preregistrato, il pubblico è praticamente tutto qui. Non c’è più nulla in contemporanea, loro sono gli headliner e i curatori di questa giornata, non può essere diversamente.

Un fattore di meraviglia è invece l’atteggiamento del pubblico, fino a poco prima alquanto rumoroso e non sempre attento: dalle primissime note di “Go Dig My Grave” cala un silenzio assordante, carico di stupore e commozione. Niente più chiacchiere con gli amici, adesso sono tutti con gli occhi fissi al palco e gli unici rumori sono gli applausi e le grida entusiaste ogni qual volta si alzano i ritmi e l’atmosfera si alleggerisce.

I Lankum sono sul palco in sette, vale a dire la formazione principale composta dai fratelli Daragh e Ian Lynch, Cormac Mac Diarmada e Radie Peat, con l’aggiunta del batterista e percussionista John Dermody. Rispetto alla data di una settimana prima al Primavera Sound, ci sono anche il produttore John “Spud” Murphy (che sta ai Synth e che, se non ho capito male, è sul palco con loro per la prima volta) e Alex Borwick, che regala preziosissimi inserti di trombone. Una formazione allargata che, immaginiamo, sarà molto difficile vedere altrove, e che rende dunque ancora più speciale questo viaggio a Dublino.

Il concerto è spettacolare, l’amalgama che c’è tra loro è assolutamente incredibile, le armonizzazioni vocali lasciano a bocca aperta, così come il modo in cui passano dalla calma sognante delle ballate, ai crescendo rumoristi, ai tunes tradizionali (che nella setlist di questa sera si sono ritagliati uno spazio consistente), eseguiti con grande perizia e pieno possesso delle dinamiche. Siamo all’aperto, ci sono diecimila persone e loro suonano con strumenti prevalentemente acustici; ciononostante l’intensità è tale che sembra di essere in un teatro o in un piccolo club. Pensavo che dopo averli visti all’auditori di Barcellona non ci sarebbe stato nulla di meglio, e invece devo ricredermi: a conti fatti, non sono assolutamente in grado di dire quale di questi due concerti sia stato migliore, e credo che basti questa ammissione a far capire di che razza di live band stiamo parlando.

In loro c’è il Folk irlandese, dicevamo, ma c’è anche tutta la destrutturazione della musica d’avanguardia, la ripetitività dei pattern, il sottofondo ossessivo del drone, le melodie vocali ipnotiche e a tratti inquietanti; il tutto con una certa attenzione filologica ai brani che scelgono di interpretare e alle versioni di riferimento (tutto il loro repertorio, che si articola su quattro dischi, è composto da standard).

 

Suonano per un’ora e venti e per forza di cose la setlist è limitata, ma i momenti memorabili sono parecchi: una placida e contemplativa “Clear Away in the Morning”, una “Rocky Road To Dublin” ancora inedita su disco (comparirà sul disco live in uscita il 21 giugno) e costellata da una vorticosa jam finale; e poi c’è “The New York Trader”, che si sviluppa in un dinamico crescendo, la strumentale “Master Crowley’s, con la partecipazione straordinaria di Cormac Begley, che segna il momento in cui il Folk irlandese fa davvero la sua comparsa, senza contaminazioni o ibridazioni di sorta.

Nulla può però eguagliare la stupefacente bellezza di “The Turn”, la lunga suite che conclude False Lankum, a detta loro proposta solo per la quarta volta dal vivo (l’hanno suonata solo in quelle serate dedicate all’esecuzione integrale dell’album): tensione totale durante la prima parte, caratterizzata da melodie eteree ed armonie vocali pressoché perfette, con una seconda sezione all’insegna della reiterazione ossessiva, momento di sublime intensità, dove il rumore si fa melodia, dove la gestione delle dinamiche diviene assoluta e risulta chiaro quanta bellezza ci sia anche nelle architetture musicali più ostiche.

Quando finisce siamo tutti senza fiato e la band non può che abbandonare il palco per darci qualche minuto di pausa. Nei bis c’è ovviamente la lenta e strascicata versione di “The Wild Rover”, la drinking song per eccellenza che, nell’interpretazione di Dónal Maguire a cui si rifanno, si trasforma in qualcosa di molto vicino ad un’elegia funebre, sempre con una grande attenzione alla variazione dettagli, all’interno di una struttura assai ripetitiva, e con un finale ad alta intensità veramente splendido.

Sarebbe finita qui, perché il coprifuoco incombe, ma i nostri decidono di regalarci anche “Bear Creek”, giusto per finire su un accento di gioiosa celebrazione. Ricompare ovviamente Cormac Begley ed è la sua concertina a guidare le danze, col pubblico che impazzisce mentre i tecnici del palco fanno segni eloquenti ad indicare che bisogna terminare, e i fratelli Lynch li mandano cordialmente a fare in culo.

 

I Lankum sono semplicemente una band enorme, e probabilmente la certificazione maggiore della loro statura risiede proprio nel fatto che stiano ottenendo una visibilità che è in netta contraddizione con la difficoltà della proposta.

Ci congediamo da questa prima edizione di In The Meadows con l’impressione di avere assistito ad una cosa veramente bella e veramente grande, e con il rammarico per il fatto che in Italia un evento così non lo vedremo mai. In futuro capiremo se si tratterà davvero di una iniziativa periodica (come sembra nelle intenzioni degli organizzatori) e, soprattutto, a chi sarà affidata la curatela delle prossime edizioni.

Per quanto riguarda noi, l’urgenza più grande sembrerebbe quella di rivedere i Lankum il più presto possibile, seppure sarà molto difficile, anche per loro, replicare un concerto di questo livello.