In The Blue Light è un atto di resipiscenza, uno sguardo lanciato verso il passato da parte di un’artista che ha scritto pagine importanti della musica americana e ora si trova a un bivio della propria carriera. Paul Simon, infatti, ha deciso di mettere fine alla propria attività concertistica con un ultimo tour (Homeward Bound) che si concluderà il 22 settembre a New York.
Una decisione presa per svariati motivi, alcuni famigliari, altri legati all’età che inesorabilmente avanza (a ottobre saranno 77 anni) e infine, a cagione della scomparsa, avvenuta lo scorso anno, del sodale di sempre, il chitarrista Vincent Nguini. Una scelta dolorosa, che ha inevitabilmente spinto l’artista a riflettere su quanto fatto fino a oggi e in particolar modo a cercare di mettere ordine fra il proprio repertorio, soprattutto riguardo a quelle canzoni di cui Simon non era completamente soddisfatto.
Continua, dunque, l’attività in studio, e continua con questa operazione di re-styling di dieci brani presi dal proprio passato. Canzoni che Simon ha voluto ritoccare, per vestirle di nuovi abiti che rispecchiassero maggiormente il suo attuale sentire, e che sono state modificate tanto negli arrangiamenti e nel suono, quanto nelle liriche, al fine di rendere più comprensibili testi il cui significato, dal punto di vista del songwriter, non era così chiaro come avrebbe voluto che fosse.
Non ci sono in scaletta brani famosi o leggendarie hit, ma un filotto di composizioni che potremmo definire minori se a scriverle non fosse stato Paul Simon. Né compaiono nel disco reinterpretazioni prese dal repertorio condiviso con Garfunkel o da quel (oggi possiamo dirlo senza timore alcuno) leggendario capolavoro che porta il nome di Graceland, mentre la maggior parte del materiale, ad eccezione dell’unica René and Georgette Magritte with Their Dog After the War (dal celeberrimo Hearts And Bones), provengono da opere meno note, quali You’re Are The One (2000), There Goes Rhymin’ Simon (1973) e So Beautiful Or So What (2011).
Ad accompagnare Paul nella realizzazione del disco, un pugno di straordinari musicisti, tra cui il trombettista Wynton Marsalis, il chitarrista Bill Frisell, il bassista John Patitucci, i batteristi Jack DeJohnette e Steve Gadd, oltre a Bryce Dessner dei National e il citato Vincent Nguini, che ha fatto in tempo a registrare l’album, prima di lasciarci per sempre.
La modernità e l’intelligenza compositiva di Paul Simon, unita alla classe e al mestiere degli ospiti appena citati dà vita non a una semplice reinterpretazione di brani già noti, ma a una raccolta di canzoni che, nonostante mantengano l’ossatura originale, suonano decisamente diverse, possedendo non solo una nuova veste formale, ma anche una nuova anima. Un disco il cui suono volge lo sguardo verso partiture decisamente jazz, con qualche inserto d’archi e un mood in bilico tra raffinata sospensione e l’incedere rilassato dell’artigiano che cesella note in punta di plettro.
Un ripensamento operoso, si potrebbe dire in termini giuridici, che dà lustro a canzoni forse fin troppo dimenticate, come Love, Can’t Run But, The Teacher (che evoca lo Sting di Fragile) e la splendida René and Georgette Magritte with Their Dog After the War, fragile elegia romantica che resta, oggi come allora, una delle vette compositive del songwriting di Paul Simon.