È da un po’ di tempo (da quando, insieme a quelle poche persone che, per dirla con Calvino, "per me non sono inferno", ci divertiamo a fare gli “agitatori culturali”) che una parte di me presta molta attenzione ai titoli di rassegne, libri, canzoni, film, poesie, illudendosi di trovare ispirazione. Ma un titolo è una cosa che o la sai trovare così, di pancia, o puoi farci poco, probabilmente più ci ragioni e peggio è.
E comunque, in questa ricerca per nulla disinteressata di parole che, messe assieme, potessero garantirci un certo effetto, mi sono imbattuto in un progetto culturale nato a Parma, si chiama “Il rumore del lutto”. Titolo, per l’appunto, clamoroso, che non fa altro che aprire mondi ed immaginari.
Che rumore fa il lutto?
Tendenzialmente direi silenzioso, e probabilmente il contraltare sta proprio lì, nell’ossimoro che si crea.
In realtà sono anni, questi, in cui la perdita si è ammantata non del silenzio composto del lutto vero, dilaniante, ma di un silenzio tutto di forma, che quasi vorrebbe nascondere il dolore sotto il tappeto, come uno strato di polvere indiscreta, come se, in un mondo infallibile come il nostro, il lutto sia la debolezza estrema.
Ci affacciamo a tanti tabù di ritorno, la morte (incredibilmente) è uno di questi, forse, considerando che, prima o poi, ci dovremo fare i conti, il peggiore.
Eppure moriamo ogni giorno: di cosa dovremmo preoccuparci?
Ci sono due versi di Sandro Penna che, nella morte, urlano vita, sono splendidi: “Forse la vita si spegne in un falò di astri in amore”.
Magari il senso è proprio quello: alla fine, si ritorna all’unica cosa che può avere pari potenza rispetto alla vita (e alla morte), l’amore.
E “di amore, morte ed altre sciocchezze”, per dirla con un altro bravino, è imbevuto l’album d’esordio di Lamante (al secolo Giorgia Pietribiasi) che, nello spazio di undici canzoni, riesce a mettere in fila tutta una piccola enciclopedia di nervi scoperti, per poi farli saltare ad uno ad uno con una potenza da sacerdotessa punk.
Perché In memoria di (morte che torna, come vedete tutto ha sempre un senso), lavoro prodotto dallo sciamanico Taketo Gohara, ha dentro di sé la potenza rivoluzionaria che hanno le cose fatte per necessità, perché hai qualcosa che ti brucia la bocca dello stomaco, e la devi dire per te prima ancora che per gli altri.
Disco aperto da una “Come volevi essere” in cui la voce di Giorgia squarcia di disperazione gli arpeggi distorti di una chitarra scortata dai fiati, in un finale tempestosamente programmatico, quasi quanto “Nella mia testa/ Proiettili e parole stanno bene insieme/ Mentre cerchi di capire dove vado a finire/ Come ho fatto fino ad adesso a vivere?”.
“Non chiamarmi bella” corre lungo i nervi di una sezione ritmica tiratissima, abrasa dalle distorsioni incandescenti della chitarra elettrica e dalle psicosi del sassofono, su cui la voce vomita (anche letterariamente, “Non voglio quello che merito/ Non è niente di buono/ Ciò che è giusto lo decido io/ Sono un'anarchica mancata”) punk.
A seguire arriva “Rossetto”, sorretta da un pattern ritmico sghembo, colorato dagli interventi fumè della sezione fiati e dagli squarci elettrici della chitarra. A condire il tutto, la potenza sanguinante di versi come “Persa e mai cercata/ Toccata e mai trovata/ Per le mie solitudini/ Dormire a pugni chiusi mi fa sentire a casa”.
“Prima di te” si snoda lungo dinamiche meno tempestose, con tastiere e chitarra acustica a stratificare di nebbia una sezione ritmica eterea, perfetta per accogliere parole dilanianti, “Tutto si trasforma/ Soprattutto la verità di una donna come me/ Che basta a sé finché il conto non torna/ Che ciò che è incerto ha sempre portato il mio nome/ Non saprei cosa offrirti di più/ Se per me felicità è il sentimento più crudele/ Tu ti senti solo, esattamente come me/ Vorrei darti la mano per provare insieme”.
“Ed è proprio così” gioca sull’incontrarsi tra gli arpeggi acustici della chitarra ed i tappeti di fiati a colorare, in un crescendo ritmico a tratti marziale, che inquadra splendidamente un terremoto poetico incessante: “Ed è proprio così/ Che combattiamo la solitudine, facendoci/ Da quando mi sono trasferita non sono più la stessa/ E la borghesia non mi fa poi così paura/ Tu sarai solo/ E io sarò in ritardo/ Ci guarderemo come fossimo già tanto/ Come se avessimo alle spalle un mare di tempo”.
Giro di boa del lavoro è “Guerra & pace”, segnata dai fraseggi metallici della chitarra elettrica, su cui poggia un basso vorticoso a trascinare la sezione ritmica, con le incursioni dei fiati ad ispessire l’atmosfera ed aprire ad una coda strumentale metà rave acido e metà distorsioni ustionanti, in perfetta concordanza con un testo ruvido e muscolare, “Penso sempre a cose porno, ho problemi con il sesso/ Che vorrei sempre farlo, ma non trovo il momento/ Finisco che faccio sempre da sola e poi mi lamento/ Se mi vogliono solo per quello o non mi vogliono per quello/ Poi butto questo in qualche canzone, sperando di cambiare/ Mi deludo quasi sempre”.
“Ebano” si colora, invece, di una figurazione ritmica muscolare e nervosa, su cui entrano a gamba tesa le incursioni caleidoscopiche dei fiati, a scavare un testo che procede a cazzotti poetici, da “Quando cado, non metto le mani a terra/ So stare a terra solo come un cane sa stare” a “Una lacrima in meno non farà di me una donna/ Se potessi guardarmi con la tua stessa forza/ Sotto la marea come un richiamo a scappare/ Da quella stessa me che dice di restare”, passando per “Posso amare un'intera folla e mai una persona/ Ma non voglio scoprire come ci si sente”.
Con “Annamaria” si torna a colori più malinconici, con i fraseggi elettrici della chitarra elettrica ad ammorbidire l’andamento incessante e metallico della batteria, in un testo su cui Giorgia crea un cortocircuito clamoroso, quel “Mi serve un'emozione/ Come all'umanità serve pace” che diventa “Io rubo un'emozion?/ Come l'umanità afferra il fucile” da sverniciare i muri.
“L’ultimo piano” si imbastardisce di nuvolaglie elettroniche, subito diradate dall’arpeggiare umido del pianoforte, da una sezione ritmica sgretolata da una linea di basso atomica e dai fraseggi onirici dei fiati. A camminare di pari passo, un paio di cazzotti di lirismo urbano, fra “Ho perso la verginità in un palazzo popolare/ L'ultimo piano sgretolato come il mio cuore” e “Come siamo finiti così?/ Nelle nostre case, sempre più piccoli/ Pensando di salvare solo noi/ Cercando di salvare solo noi”.
Penultimo momento del disco è “La nostra prova di danza”, sorretta da uno strumming acustico colorato dai ricami del violino e da un tuonante crescendo ritmico. A fare da contraltare, una manciata di versi talmente belli e viscerali che si commentano da soli: “E diventando più grande/ Le cose le vedo sparire/ I grandi palazzi diventeranno grandi macerie/ Per piccole person? come noi/ E diventando più grande/ Vorr?i che il mio prossimo nome fosse "Giardino"/ Così quello che cresce è anche quello che sono”.
A chiudere il lavoro ci pensa una “Ciao cari” disegnata sugli arpeggi malinconici del pianoforte e su un cantato da nervi a fior di pelle, dilaniante come il testo: “Fuori piove, fuori piove/ Il cielo è la Madonna che si commuove/ Fuori piove, fuori piove/ Il cielo è una condanna che non so sopportare/ Come se ci fosse un filo che lega/ Un fiore a una forbice/ Ma io non muoio, io non muoio/ Io non muoio/ Se una poesia mi gela il sangue/ Se un cuore che mi lascia per strada sempre/ Senza scarpe”.
E basta, sinceramente non credo serva altro.