Il termine limerenza (o ultra attaccamento) venne coniato dalla psicologa Dorothy Tennov per indicare una specifica patologia di natura ossessiva, quale degenerazione dell’amore “romantico”.
Mentre nella relazione romantica entrambi i soggetti vivono una ossessione reciproca, nella limerenza la crescita di tale sentimento viene alimentata dalla indisponibilità del soggetto/oggetto amato/a, ovvero da colui/colei oggetto della stessa.
Con questa parola si viene così ad indicare la condizione mentale di una persona che sviluppa un estremo desiderio di attaccamento e/o di preoccupazione per la persona amata che sfocia in uno stato mentale che presenta similitudini ai disturbi ossessivi compulsivi.
La psicologa Tennov, difatti, individuò in alcuni soggetti un desiderio quasi morboso di essere considerati positivamente, o comunque di ricevere l'attenzione da parte di un'altra persona che normalmente non risultava disponibile a ricambiare tale tipo di sentimento.
Sarebbe interessante conoscere la risposta dei componenti del gruppo londinese su quale sia stato il motivo che li ha portati alla scelta di questo estemporaneo titolo, ma sono tuttavia assolutamente convinto che alla domanda di indicare quali siano le loro radici musicali, la risposta non potrebbe che essere la new wave e/o la cosiddetta gothic music (anche se trovo nelle loro sonorità degli spunti shoegaze in alcune saturazioni chitarristiche).
Avendo già più volte scritto in tema di goth, che nella versione italica assunse il nome dark, segnalo solo che il dark, come ogni sottogenere musicale giovanile, ebbe (e mantiene) un suo look, che nel caso specifico, possiamo definire, “ossianico”. Per chi volesse approfondire anche l’aspetto estetico di tale genere musicale, segnalo che al museo di Trastevere a Roma, fino a gennaio del 2025, sarà possibile visitare la mostra fotografica 80’s dark Rome, che raccoglie numerosi scatti fotografici effettuati da Dino Ignani alla gioventù dark/wave capitolina che frequentava bar, discoteche, luoghi di ritrovo, della Roma più sotterranea.
Non volendo fare della sociologia spicciola, mi domandavo ultimamente se tra le ragioni di tale “rinascita” vi possano essere delle similitudini (su scala mondiale) tra gli anni che stiamo vivendo e gli anni Ottanta del secolo passato.
La risposta che mi sono dato è che, al di là di una sensibilità particolare verso queste sonorità (e delle tematiche ad esse sottese), anche in quel periodo una parte della gioventù (forse la più accorta a quello che stava succedendo) percepiva fermenti sociali e geopolitici in atto che trovano una “sinistra” assonanza col tempo che stiamo vivendo.
Bastino solo alcuni esempi: inizio della decadenza del settore industriale con dismissioni di impianti e relativo aumento del tasso di disoccupazione; aumento dell’inflazione (e quindi del costo della vita) a fronte di redditi fissi; “timore” di una escalation nucleare (il mondo era diviso in blocchi); la situazione in Medio Oriente che, come oggi, affermare fosse “calda” e forse sin troppo riduttivo; per non dire dello spleen esistenziale notevolmente acuito negli ultimi anni dai social che, a differenza di quanto vorrebbero farci credere, hanno aumentato non la socialità ma l’estraneità di chi li usa, se non, ancor peggio, fomentare il cosiddetto hate speech.
Tutto quanto sopra riferito deve comunque essere accolto cum grano salis, ovvero è proposto secondo gli occhi di chi ha vissuto quel periodo; per avere una visione più completa d’insieme, e forse anche più attuale, occorrerebbe chiedere alle generazioni odierne le ragioni d’ascolto di questo genere; da parte mia, come recensore, non posso che auspicare che le pagine di Loudd possano divenire uno spazio di discussione su questi temi che sembrano distanti dalla musica, ma la musica dove trova alimento se non nella vita?
Per tornare ai Black Doldrums, la loro seconda produzione musicale si inserisce in quel filone, oramai abbastanza nutrito, di musicisti che recuperano l’estetica musicale post punk che, come noto, ha quali padri fondatori i Joy Division, Bauhaus, The Cure, Siouxsie, e via dicendo. Personalmente trovo anche dei richiami (in particolare per il cantato, epico ma non stucchevolmente cavernoso) al gruppo di New York, Bootblacks, e in particolare ai primi due LP Veins e Fragments.
In estrema sintesi abbiamo quindi alla base un drumming potente ed evocativo, su cui emergono una serie di accordi di basso profondi e un muro chitarristico che presenta delle influenze stilistiche dei successivi anni Novanta, come dimostra “Hideaway”, il brano posto in apertura dell’album.
E che dire del successivo “Dying for you”? dove su un “classicissimo” giro di basso wave si innestano i vari strumenti e la voce del solista. Un gran bel pezzo molto ritmato e “orecchiabile” che mi ha fatto tornare alla mente i Forever Grey, altro misconosciuto gruppo new gothic americano.
Il disco prosegue con “Summer Breeze”, con il suo ritmo saltellante alla New Order, dove, alla pari della seguente “Painting Smiles”, i Black Doldrums lambiscono i suoni di un dark pop con una presa catchy, che ebbe tra i suoi mentori i Balaam & The Angel.
Ci sono poi pezzi dove invece il sound si inasprisce, divenendo più “cupo” ed “aggressivo”, come in “Silence”, dove i ritmi spezzati della batteria lasciano spazio ad un cantato fortemente evocativo. Stilemi che ritroviamo anche nel brano che segue, ovvero “Tarantula”.
Altro brano, altro giro, con “Changing of a season” si ritorna in una dimensione più leggera che trova il suo naturale proseguo in “New Moon”.
Per concludere, un bel disco da consumare in attesa dell’oramai imminente ritorno su album (dopo oltre quindici anni) di uno dei gruppi culto imprescindibili per chi ama il goth, ovvero Songs of a lost world dei Cure.
Chissà se anche i Black Doldrums parteciperanno al ballottaggio per ottenere i biglietti del concerto gratuito di presentazione dell’album per “Radio 2 in concert”; di certo noi, non essendo UK residents, sicuramente no, e questo, forse, ci permetterà di capire un poco meglio il concetto di limerenza.