“Ogni volta che scrivo una canzone penso che non ne vorrei mai più scrivere un’altra in vita mia! E quelli che pensano che la creazione sia un processo magico e piacevole… può essere vero solo nella misura in cui sia piacevole passare sei settimane a lavorare allo stesso pezzo, andare a letto pensando a quel pezzo e avercelo in mente come prima cosa il mattino dopo al risveglio…”
Quando uscì A Common Turn a colpirmi furono soprattutto la grande profondità e sofferenza che si avvertivano nella voce di questa giovane ragazza inglese, in grado di rendere fresca e presente una forma canzone ancora fortemente ancorata al Folk d’autore.
Due anni dopo quell’esordio folgorante, con il piacevole intermezzo dell’EP These Dreams, ecco in/FLUX, il sophomore che certifica una volta di più il talento di un’artista che spicca davvero al di sopra della media.
Rimane effettivamente difficile capire che cosa dovremmo dire di un lavoro del genere, soprattutto quando è l’autrice stessa la prima a dichiarare che parlare di un disco, che possiede un linguaggio completamente diverso rispetto a quello verbale, rappresenta un’operazione completamente assurda: “È strano parlare di qualcosa quando è già tutto lì davanti a te!” si è trovata a dichiarare in una recente intervista.
Resta che qualcosa lo dobbiamo pure scrivere e allora può avere senso partire dalla dichiarazione iniziale, la composizione come forma privilegiata di sofferenza. Scrivere può anche essere un’attività piacevole ma, nella misura in cui se ne prende davvero coscienza, non ci si può sottrarre al fatto che contenga anche una certa componente di dolore, di quella fatica che è inevitabile prezzo da pagare per riportare a galla tutte quelle verità rimaste a lungo sepolte.
Anna ha lavorato così, come se si trattasse di una lunga seduta di autonanalisi per cui ogni giorno, prima di consegnarsi nelle mani del produttore Mike Lindsay, scriveva quelle che chiamava “Morning Pages”, flussi di coscienza da cui sarebbero poi scaturite le idee per i testi.
Si è anche rimessa a suonare il clarinetto e il sassofono, strumenti dell’infanzia e della giovinezza, che non adoperava da 15 anni. Una parte del segreto del successo di questo disco sta anche in questa scelta: la scrittura si è fatta più matura ma non è mutata troppo, non nelle linee essenziali almeno. C’è stato tuttavia un lavoro certosino negli arrangiamenti, con elettronica, strumenti a fiato, orchestrazioni leggere, che hanno via via arricchito e donato un’identità maggiormente spiccata a brani tutto sommato lineari.
Gli arrangiamenti dunque non stravolgono ma impreziosiscono quelli che sono già i punti di forza dei singoli episodi. Che si tratti di un passo avanti lo si capisce sin dall’opener “The Ghost”, che è stato anche il primo singolo ad essere pubblicato: paesaggio elettronico reso ancora più affascinante dalla presenza di una kalimba (uno strumento tradizionale dello Zimbabwe) e poi un capolavoro di piano, glitch, un violoncello accennato, un ritornello struggente che ne costituisce il centro melodico ed emozionale (“Stop haunting me, please”); meraviglioso come si riempie in modo graduale, sempre con la massima discrezione e cura nei particolari, con i vari strumenti che vanno tuttavia sempre più a sottolineare la drammaticità delle tematiche trattate.
È l’highlight assoluto del suo repertorio? Se non lo è, ci va comunque molto vicino, ed è il punto a cui guardare se si vuole capire che razza di artista sia oggi Anna B Savage. Che nel momento stesso in cui riempie le sue canzoni di suoni e accorgimenti vari, è in grado di scrivere brani che ripropongono e riaggiornano con non noncurante facilità la lezione storica di Joni Mitchell: “I Can Hear the Birds Now” è dominata dalla chitarra classica e da una voce dall’espressività lacerante, un accenno di archi e fiati nella seconda parte, a rendere il tutto più affascinante. O anche “Hungry”, altro Classic Folk, questa volta con la chitarra acustica, paesaggio bucolico reso a meraviglia dalle percussioni e da un sempre gradevole intermezzo di fiati. E poi “Feet of Clay”, più solare e movimentata, grazie anche ad uno spettro sonoro bello pieno, a dispetto di un testo che insiste sulle fragilità affettive dell’autrice.
A tratti vengono provate soluzioni nuove, come nella cascata di elettronica della title track, sorta di manifesto di una ritrovata serenità all’insegna del solipsismo (quel “I want to be alone, I’m happy on my own” ripetuto come un mantra nel ritornello). Il resto del disco però vive più semplicemente di grandi canzoni, che l’intensità dell’interpretazione e il livello eccelso della scrittura contribuiscono a trasformare già in classici senza tempo: “Say my Name” è probabilmente la migliore, con la chitarra acustica a dettare il ritmo, fiati e batteria in sottofondo, una liberazione full band nel finale che sembra fatta apposta per essere valorizzata nei prossimi concerti.
“If this is all that there is, I think I’m going to be fine”, canta nel conclusivo mantra acustico di “The Orange”, il clarinetto che sale gradualmente a sottolineare il concetto. Se le cose stanno così, abbiamo un altro potenziale disco dell’anno, e chi se ne frega se siamo solo a febbraio. Anna B Savage rischia seriamente di diventare una delle artiste più importanti di questi ultimi anni. A maggio sarà a Bologna per la sua unica data italiana, dopo che quella di Torino del 2021 era stata cancellata causa Covid. A questo punto credo sia illegale perdersela.