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REVIEWSLE RECENSIONI
09/09/2020
The Killers
Imploding the Mirage
Tra New Wave inglese anni Ottanta, grandeur springsteeniana e un tocco di Electric Light Orchestra, i The Killers chiudono un decennio caratterizzato da alti e bassi con “Imploding the Mirage”, senza dubbio uno degli album migliori della loro carriera.

A pensarci bene, per i The Killers gli ultimi dieci anni sono stati un periodo abbastanza contraddittorio. Da un lato, la loro popolarità non ha fatto altro che aumentare, permettendo alla band di Las Vegas di riempire le arene di mezzo mondo e di togliersi più di qualche soddisfazione, vedi gli album recensiti con sempre maggiore favore (tanto che oggi sembrano inconcepibili le stroncature che all’epoca accolsero Sam’s Town) e le serate da headliner a Glastonbury, con i sentiti omaggi di Pet Shop Boys e Johnny Marr. Dall’altro, però, nonostante l’alto piazzamento in classifica, gli album hanno smesso di vendere come un tempo, come dimostrano le deludenti performance di Battle Born (molto al di sotto delle aspettative) e Wonderful Wonderful (che non ha contribuito ad aggiustare la tendenza).

Come se non bastasse, da oltre tre anni i The Killers sono diventati, nella pratica, un duo, con il chitarrista Dave Keuning autoesclusosi da qualsiasi attività della band e il bassista Mark Stoermer a mezzo servizio, a causa di un persistente problema all’udito che lo affligge da diversi anni. Guidata ormai solo dal frontman Brandon Flowers e dal batterista Ronnie Vannucci, la band del Nevada nel nuovo Imploding the Mirage, invece di ricostruire in laboratorio il classico sound à la The Killers come fatto nel precedente Wonderful Wonderful, questa volta sceglie la strada meno scontata e, alla fine dei conti, più onesta e sensata, aggiungendo al consueto mix di New Wave inglese anni Ottanta e grandeur springsteeniana un tocco di Pop beatlesiano à la Jeff Lynne e un pizzico di Neopsichedelia.

Anzi, a voler essere precisi e giocare un po’ a “spot the influences”, a conti fatti Imploding the Mirage da un lato è la riscrittura, con un pizzico di esperienza e malizia in più, di Sam’s Town, il tanto criticato album Heartland Rock dei The Killers, e dall’altro è uno strano esperimento sonoro, quasi da ucronia del Rock, come se volesse dare una risposta alla domanda: cosa sarebbe successo se Springsteen si fosse rivolto a Lynne per farsi produrre il successore di Tunnel of Love? Ecco, molto probabilmente il risultato non sarebbe stato tanto diverso da Imploding the Mirage.

Orfani di un chitarrista molto influenzato da The Edge come Keuning, Flowers e Vannucci con intelligenza hanno deciso di non sostituirlo utilizzando qualcuno che ne imitasse pedissequamente lo stile, ma anzi, si sono divertiti a mischiare le carte invitando in studio un vasto cast di ospiti (Roger Manning, Adam Granduciel dei The War on Drugs, Blake Mills, Benjji Lysaght, Rob Mose, Holly Laessig e Jess Wolfe delle Lucius), ognuno dei quali ha offerto il suo tocco per rendere Imploding the Mirage allo stesso tempo un classico della discografia dei Killers e un’esperienza sonora senza uguali.

Aiutati dalla coppia di produttori Shawn Everett e Jonathan Rado (del duo Foxygen), con un paio di interventi mirati da parte di Stuart Price e Ariel Rechstaid, i The Killers 2.0 hanno infatti alternato alla sei corde Mark Stoermer e Jonathan Rado, con quest’ultimo che si è occupato di suonare anche  la maggior parte delle parti di basso e dei restanti strumenti, dando al tutto un piacevole retrogusto Pop, fortemente debitore dell’ultima Electric Light Orchestra e di Cloud Nine di George Harrison, con tante chitarre acustiche, tastiere fluttuanti, armonie vocali non convenzionali e batterie reali così precise da sembrare programmate. Senza dimenticare qualche interessante citazione Krautrock, vedi i palesi richiami a “Hallogallo” dei NEU! e “Moonshake” dei Can presenti in “Dying Breed”.

Al resto, ci hanno pensato tre firme di primo piano: k.d. lang, che è intervenuta in “Lightning Fields”, un pezzo che non ha paura di citare a piene mani il Peter Gabriel degli anni Ottanta; Natalie Mering (Weyes Blood), che ha disseminato in molte tracce del disco una serie di camei vocali e si è ritagliata un ruolo importante in “My God”; e, soprattutto, Lindsey Buckingham, che regala a “Caution” (uno dei migliori singoli dei Killers degli ultimi anni, arrangiato esattamente come “Runnin’ Down a Dream” di Tom Petty) un assolo finale davvero di grandissimo livello. Ma lo spettro dei Fleetwood Mac non di esaurisce di certo qui, perché in “Running Towards a Place” da un momento all’altro sembra debba fare capolino la voce di Stevie Nicks. Mentre il basso di Tina Weymouth è stato più di un’ispirazione in “Fire in Bone”, quasi una outtake di Little Creatures.

Con il Covid-19 che ha cancellato la tournée promozionale del disco e ha visto posticipare la data di uscita di Imploding the Mirage di diversi mesi (l’album era inizialmente previsto per maggio), i Killers hanno già annunciato che – in mancanza di alternative – si chiuderanno in studio per lavorare al suo successore. Dopo due lustri fatti di alti e bassi – a cui vanno aggiunte le difficoltà personali di Flowers, a cui la band ha dedicato gran parte di Wonderful Wonderful, un album solista del frontman dal punto di vista delle tematiche trattate molto più del suo The Desired Effect – i Killers hanno realizzato forse il loro disco migliore dai tempi dell’esordio Hot Fuss. Con una band così in forma, non vediamo l’ora di ascoltare nuova musica.


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