Se dico disco music la considerate una bestemmia? Scommetto che qualcuno mi risponderebbe affermativamente. Se dico Talking Heads probabilmente no, ma quanti sanno che loro con la disco avevano più di un punto in comune e che quando si esibivano al CBGB venivano puntualmente infamati dalle frange più dure e pure dei punkster proprio per questo ?
L’oggetto del post non è però sulla diatriba tra discotecomani e rocchettari, ma mi ha dato il gancio per parlare di disco music una nuova ristampa in CD in edizione Expanded/deluxe per i tipi della BBR Records di un must del genere; ovvero sto parlando di Jackie Moore e del suo “I’m On My Way”, anno/disco di grazia 1979.
Che poi faremmo un torto alla nostra Jackie ad etichettarla solo e soltanto come Disco Diva, essendo la medesima una delle voci più belle e calde del Southern Soul, genere in cui aveva avuto dei buoni successi ad inizio carriera, sotto l’egida della Atlantic Records.
“I’m On My Way” è il primo lascito per la Columbia, etichetta discografica dove si accasò la Moore dopo l’uscita dalla Atlantic, fortunatamente realizzato in piena era disco.
Quindi, la cantante ce l’abbiamo, le canzoni pure, dove andiamo a registrare? E dove saranno mai andati? A Scandicci? Sì, ciao córe!
Philadelphia e certo!
“Eh ma la Disco la sanno fare tutti” disse il secchione chiuso nella sua cameretta con un disco di Guccini sul giradischi.
Sì, ok, è certo che il genere deve avere i suoi requisito fondamentali per riuscire nel proprio intento: orecchiabilità, una bella voce non è strettamente necessaria, ma aiuta eccome se aiuta, strumentisti con i controcoglioni, le canzoni giuste e ritmo, tanto ritmo.
In “I’m On My Way” abbiamo tutto questo, concentrato in mezz’ora o giù di lì.
La produzione del grande Bobby Eli, le canzoni, una in particolare, “This Time Baby”, cover ultrapompata di un brano degli O’Jay’s, divenuta culto assoluto dei club inglesi del periodo e oltre nonché presente nella colonna sonora del videogame “Grand Theft Auto: Vice City Stories”, ma poi anche una grande ballad “Joe”, e poi metteteci pure tutto il resto, canzoni antidepressive che farebbero resuscitare anche i morti di sonno, poi i bassi: sentite come pompano funk, e ancora i fiati e poi gli archi. Archi, archi dappertutto, archi a ricamare, archi quando mangi, archi quando caghi, archi quando dormi, a svisare, a tessere trame melodiche. Gli archi dell’orchestra di Don Renaldo, perdiana!
E poi le percussioni, come in un sabba e dulcis in fundo la voce di Jackie Moore, nata per il soul, sublimata con la Disco.
Mi verrebbe voglia di coniare un nuovo termine, sunshine disco, talmente queste canzoni sprigionano voglia di vivere e di scendere su una pista da ballo.
Altri tempi; adesso quel che è rimasto del genere sono vecchie rimpatriate tra tardoni e tardone e siate certi che non ascolterete le canzoni contenute in questo disco: ad andarvi bene qualche vecchia gloria del Philly Sound, ma sarebbe oro che cola, più facile che vi arrivi tra capo e collo “Ramaya” e “Disco Duck”.
Non è richiesto l’ascolto compulsivo, ma credetemi, la Disco è necessaria e mentre tu sei intento a celebrarne il funerale, questa ritorna, sempre e per sempre, anche dove non te l’aspetti.