Ottima messa in scena per un film al quale nulla manca per vantare un respiro internazionale, approccio che, come è già stato fatto notare in più sedi, si nota fin dalle prime battute grazie alla sequenza della festa che richiama grandi film come Il Padrino (uno dei film "di mafia" per eccellenza) o il nostrano Il Gattopardo, anche se personalmente mi è tornata in mente più che altro la scena del ricevimento girata da Michael Cimino ne Il cacciatore, praticamente parliamo di storia del Cinema. Se Bellocchio non si inserirà con la stessa forza accanto agli illustri predecessori (ma questo solo il tempo potrà dircelo) quantomeno non sfigura nella rappresentazione di una vicenda che, magari senza la stessa potenza di quelle sopra citate, si inserisce tra i migliori prodotti del nostro Cinema contemporaneo. C'è un velo di ambiguità nella storia de Il traditore, così come c'è sempre stato attorno alla figura di Masino Buscetta (al secolo Tommaso), quello che viene considerato il primo pentito di mafia, perché in fondo nessuno può ancora dire in totale certezza quanto è stato detto di veritiero e soprattutto quanto è stato taciuto dal personaggio in questione, non tra le persone più integerrime e oneste sulle quali riporre la propria fiducia. Su Buscetta sembra riporre almeno una certa dose di questa fiducia il giudice Falcone (Fausto Russo Alesi) che imbastirà accuse e dossier che infliggeranno duri colpi all'organizzazione mafiosa anche grazie alle rivelazioni fatte al magistrato dal pentito.
La narrazione del regista prende il via nel momento in cui Buscetta (Pierfrancesco Favino) decide di allontanarsi da Cosa Nostra e di trasferirsi in Brasile insieme alla sua ultima moglie Maria Cristina (Maria Fernanda Candido), lasciando a Palermo i figli avuti da precedenti matrimoni in un momento in cui gli affari legati al contrabbando e al traffico di droga sono gestiti per mezzo di una delicata alleanza tra la cosca palermitana (Buscetta, Calò, Inzerrillo, Badalamenti, Contorno) e quella della nuova mafia corleonese guidata da Totò Riina (Nicola Calì). L'avventura sudamericana di Buscetta è destinata però a finire il 23 ottobre 1983 quando viene arrestato dalle autorità brasiliane che concederanno in seguito l'estradizione dell'uomo verso le carceri italiane, da qui nascerà la collaborazione con lo Stato da parte di un uomo che non si dichiara mai "pentito" ma che decide di far pagare alla nuova mafia corleonese, che Buscetta legato alla vecchia "Cosa nostra" non riconosce, l'affronto subito a causa del tradimento di Pippo Calò (Fabrizio Ferracane) che, passato ai corleonesi, gli fa uccidere i figli Benedetto e Antonio (Gabriele e Paride Cicirello).
Allora chi è per Bellocchio il traditore? Masino Buscetta che volge le spalle all'organizzazione rompendo un muro di omertà, o quel Pippo Calò, vero avversario di Buscetta nei dibattimenti, che ha tradito un'amicizia di lungo corso macchiandosi di crimini infami? Quello che conta, come è mostrato dal regista in diverse scene emblematiche, è l'ennesima e sempre necessaria riflessione su quella che, al di là degli atti concreti, dei morti, degli attentati, è una propensione di parte della popolazione italiana (e il riferimento non è al sud o alla Sicilia) alla connivenza con ogni tipo di disonestà, all'utilitarismo personale prima che al bene comune, una mentalità che fa gioco alle mafie (usando una generalizzazione) e per la quale lo Stato stesso è mafia, non solo per le collusioni tra politica e criminalità organizzata di cui anche nel film si parla, lo Stato Italiano è mafia nell'assenza, nei territori ma anche in tante situazioni sociali e di disagio, è mafia nella noncuranza, nell'abbandono, nell'indifferenza e nel non interesse per chi viene emarginato, lasciato indietro e abbandonato è che nella mafia trova in maniera assurda un'ancora di salvezza. "La mafia è lavoro", manifestano alcuni cittadini, e purtroppo spesso è così, l'organizzazione criminale arriva nei luoghi e alle persone a cui lo Stato ha voltato le spalle. Soprattutto per riflettere su temi sempre attuali come questo Il traditore è un film necessario, sarà anche retorica ma purtroppo, ad oggi, così è.
Lasciati da parte i contenuti a eccellere è anche il contenitore, il film offre belle immagini, concede qualche sprazzo al moderno (il contatore a scandire le vittime di mafia) in un impianto in realtà molto classico, coinvolgente struttura da biopic dove forse l'unico appunto si può fare al tratteggio di un protagonista apparentemente addolcito rispetto all'uomo che realmente è stato, non dimentichiamo che si sta parlando di un assassino e trafficante di droga che può contare diverse vittime sulla coscienza, ne Il traditore la sua figura non risulta mai così respingente, anzi, grazie anche alla superba interpretazione di Favino si finisce per simpatizzare con un uomo la cui collaborazione con la giustizia non ne cancella il passato. Conoscendo un minimo il regista mi sento di ipotizzare che non fosse questa l'intenzione di Bellocchio nel raccontarne la figura. Molto riuscita anche nei segmenti processuali quest'opera che si eleva al di sopra della media della nostra produzione, da poco premiato come miglior film italiano ai David di Donatello Il traditore è uno dei film da recuperare della scorsa stagione, non solo in riferimento alla cinematografia dello stivale.