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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
13/11/2017
Michel Petrucciani
Il Talento e la Normalità
Eccolo lì, Michel, piccolo grande uomo, abbarbicato sul pianoforte, risposta poetica del Creato al disegno beffardo della natura. Ossa di cristallo contro l'impietoso cinismo del mondo, piccolo Davide contro il Golia del morbo, poesia contro violenza, gioia contro dolore, vita che tracima attraverso gli angusti recinti di una morte annunciata.

Verso la fine di Body And Soul, film del 2011, per la regia di Michael Radford, dedicato alla vita di Michel Petrucciani, Eugenia, ex compagnia del pianista, afferma che: " Michel aveva un talento immenso, eppure l'unica cosa che desiderava era camminare su una spiaggia mano nella mano con una ragazza". Una frase fulminante, che mi ha spinto istintivamente a una riflessione. Ho pensato che io sarei pronto a cedere tutta la mia normalità fisica per possedere anche solo un decimo di quel talento, rinunciando a tutto, pur di vivere un briciolo di quella gloria. Forse è proprio questo il senso del bel film di Michael Radford, una pellicola che parla di musica ma che racconta soprattutto una storia in cui tutto è relativo: la percezione del genio così come la percezione della disabilità, l'avvenenza fisica e l'aridità di spirito, la pienezza di una vita vissuta sempre al limite e il trascorrere del tempo, a cui spesso ci riferiamo in termini quantitativi senza tener conto della qualità del vissuto.

Michel Petrucciani nasce il 28 dicembre del 1962 a Orange, piccolo centro transalpino nei pressi di Avignone. Uso il termine nascere per convenzione, perché a seguito del parto il piccolo Michel riporta la frattura di tutte le ossa dello scheletro e si salva per miracolo. Ha contratto un brutta malattia, una di quelle che per quanti progressi possa fare la medicina, non lascia scampo alla guarigione. La malattia si chiama Osteogenesi Imperfetta: le ossa sono fragili come il cristallo e si sbriciolano al primo urto, al primo movimento inconsulto. Basta alzare un peso eccesivo o urtare per distrazione una mensola, e il danno è fatto. Petrucciani non ha una vita normale, non può giocare, non può correre, non può stare in mezzo agli altri bambini. E non cresce in altezza, rimane piccolo, non arriva a superare il metro. Però ama la musica ed è talmente innamorato del jazz e del pianoforte, che a sette anni già suona come un pianista professionista. Nonostante tutto, Michel coltiva una passione e crede in un sogno, attraverso il quale persevera nella sua ricerca di normalità. Quando compie quindici anni viene notato dal vibrafonista Kenny Clarke, con cui registra il suo primo album a Parigi. Poi, suona con Lee Konitz, e quindi si traferisce negli Stati Uniti, dove impara perfettamente la lingua in soli sei mesi e acquista progressivamente notorietà, grazie anche a collaborazioni con musicisti del calibro di Dizzy Gillespie, Wayne Shorter, Jim Hall, Eddie Gomez e altri ancora.

Petrucciani in qualche anno si trasforma in una star di prima grandezza, registra parecchi dischi, suona al Blue Note, si consuma letteralmente in estenuanti tour. Ma soprattutto Michel vive, vive a cento all'ora, senza freni, senza limiti, senza porsi una meta, un traguardo. Vive per vivere, solo per il gusto di assaporare l’esistenza fino all’ultimo sorso, cercando l’eccesso come contraltare della disabilità. Non c’è furia autodistruttiva in lui, ma solo la ricerca di un riscatto, dimostrare al mondo che il limite è una condizione mentale, non fisica. Passa, allora, da una donna all'altra, amandole tutte con passione vorace, ha due figli (uno dei quali erediterà la sua malattia), prova ogni tipo di droga, beve molto, frequenta cattive compagnie. Ma sorride, sorride alla vita e alla gioia dei piaceri fisici, e si fa beffe del suo handicap e del suo destino, rischiando ogni giorno come se fosse l'ultimo, sfidando Dio, le convenzioni e ogni ragionevolezza. Ama camminare sull'orlo del precipizio, in bilico, ma sempre con lo sguardo rivolto al cielo, mai verso il baratro. Quando torna a New York, dopo una lunga permanenza in Francia, lo fa contro i consigli di medici e amici. E' provato, stanchissimo, e la Grande Mela lo attende, coi suoi colori rutilanti, ma anche con la neve e il gelo. Sarà proprio questo freddo a causargli la polmonite che, complicando il grave quadro clinico della sua patologia, gli sarà fatale.

Michel muore il 6 gennaio del 1999, all'età di 36 anni. 

Ora, Petrucciani, riposa a Parigi, nel cimitero di Pere Lachaise, e la sua tomba è posta a fianco di quella di Frederic Chopin. Non a caso. Come il grande musicista e compositore polacco, infatti, Michel possedeva un immenso talento, era un pianista eccelso, che abbinava alla particolarissima tecnica (il suo tocco era reso inimitabile dalla leggerezza della composizione ossea delle braccia) una sensibilità musicale onnivora, che esplorava jazz, blues e classica (l'ultima grande passione della sua vita), con un mood talvolta malinconico e più spesso incredibilmente brioso.

Michel si arrampica, letteralmente, sul pianoforte. E' goffo, fa fatica. Con quelle gambe rattrappite che ballano a mezz'aria e non toccano terra, sembra un bimbo piccolo alla guida di un fuoristrada. Quando sale sul palco, la scena assume quasi caratteri grotteschi e suscita nel pubblico una pietosa e condiscendente ilarità. Almeno fino a quando non inizia la magia delle note, e il cuore di chi ascolta si ferma. Non esistono più limiti fisici, non esiste più nessuna malformazione. Le grandi mani di Michel si muovono rapide sulla tastiera, le movenze sono muscolari, quasi possenti, mentre le scale si alzano leggiadre e salvifiche, verso il cielo.

Quando lo ascoltai suonare la prima volta pensai subito a due miti. All'immenso Art Tatum, di cui Petrucciani aveva ereditato il gusto per l'improvvisazione debordante, e soprattutto a Bill Evans, il più grande dei romantici. Con Evans, Petrucciani condivideva un approccio al jazz dal sapore nazional popolare, la medesima capacità di rendere semplicissime anche le cose più difficili, il dono superiore di essere comprensibile a tutti, di toccare il cuore della gente. Mi innamorai veramente del jazz quando mi innamorai di lui, di quella folle velocità con cui bruciava i propri giorni al pari dei tasti del pianoforte, di quei fraseggi che scorrevano furiosi come un fiume in piena, eppure al contempo leggerissimi. Ricordava Tatum, ricordava Evans, ma era soprattutto Petrucciani, la mano destra di Dio.

Eccolo lì, Michel, piccolo grande uomo, abbarbicato sul pianoforte, risposta poetica del Creato al disegno beffardo della natura. Ossa di cristallo contro l'impietoso cinismo del mondo, piccolo Davide contro il Golia del morbo, poesia contro violenza, gioia contro dolore, vita che tracima attraverso gli angusti recinti di una morte annunciata.

Musica.

Musica che si respira, musica che tiene vivi, musica che inebria di ossigeno.

C'è chi nella propria vita possiede tutto e non restituisce nulla. E chi invece mangia pane raffermo e versa lacrime e sangue, donando amore. C'è chi vive novant'anni e non lascia un segno. E chi invece in un solo istante rende onore agli uomini e all'arte. Il bene e il male, però, si confondono: non c'è sventura che produca solo dolore, né bellezza tanto perfetta da essere bastevole a se stessa. La vita è questa, è un'avventura in cui tutto è relativo. La disabilità, la normalità, la tragedia, la felicità. E il talento, per un briciolo del quale noi saremmo pronti a sacrificare tutto, mentre a Michel non bastava più. Lui voleva soltanto camminare su una spiaggia, mano nella mano con una ragazza.