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THE BOOKSTORECARTA CANTA
Il suono del secolo (quando il rock ha fatto la storia)
Stefano Mannucci
2017  (Mursia)
CARTA CANTA
all THE BOOKSTORE
01/12/2017
Stefano Mannucci
Il suono del secolo (quando il rock ha fatto la storia)
...le 458 (!) pagine vergate con ammirevole impegno e sincera passione da Stefano Mannucci raccontano per la decimillesima volta storie e memorie del Novecento con il nostalgico, stucchevole romanticismo contemporaneo dei buoni sentimenti travestiti da “istanze rivoluzionarie”.

Fatte salve rarissime eccezioni, i libri che trattano di musica pop[1] scritti da giornalisti, critici o storiografi italiani, mainstream o indie che siano, li evito, solitamente, nello stesso modo in cui evito di ascoltare il “rock italiano”, mainstream o indie che sia; il che, detto da un italiano che scrive quasi esclusivamente di musica forestiera, potrebbe suonare quanto meno grottesco. Ma si deve tener conto del fatto che il sottoscritto non è un giornalista, non è un critico, non è uno storiografo e non è nemmeno uno “scrittore” di professione. Per certi versi, la cosa mi autorizza quindi a scrivere come mi pare di quello che mi pare: nell’ambiente giornalistico e nel circo dello spettacolo non ho una reputazione da mantenere e curare, non ho amici e non ho (ancora) nemici, non vengo pagato e le marchette non fanno parte del mio costume (benché talvolta io apprezzi la scostumatezza). Ergo: sono – o credo di essere – libero. Al punto da poter affermare, senza paura di ritorsioni o anatemi, che di libri come “Il suono del secolo – Quando il rock ha fatto la storia” non se ne può davvero più.

Accompagnate da un impenetrabile, quasi ermetico endorsement di Sarina Biraghi (“Perché i millennials scoprano cosa fosse il rock e cosa potrebbe essere ancora oggi se tanti di loro crescendo lo adottassero parallelamente al pop. Non è un derby… ma una nuova ricchezza a portata di mano: basta prenderla e ti accompagnerà per sempre”), le 458 (!) pagine vergate con ammirevole impegno e sincera passione da Stefano Mannucci raccontano per la decimillesima volta storie e memorie del Novecento con il nostalgico, stucchevole romanticismo contemporaneo dei buoni sentimenti travestiti da “istanze rivoluzionarie”. E dunque, ecco sfilare il solito John Lennon di “Imagine”, portavoce della pace e dell’amore ecc., il solito Jimi Hendrix che con la sua “mitica” chitarra trasforma “The Star-Spangled Banner” in una sinfonia di bombardamenti per protestare contro la guerra del Vietnam, la “misteriosa” morte di Jim Morrison e la teoria complottista, l’affaire MKULTRA, la figura messianica di Bob Marley che a suon di reggae ricompone un paese, la Giamaica, dilaniato da sanguinosi conflitti di potere, la solita storia di  Woodstock-che-palle-Woodstock, il Live Aid, e pure l’ormai naftalinizzato ’68, eccetera, eccetera, eccetera.

Mannucci si immola per una nobilissima causa: risvegliare i millenials dal torpore del moderno “pop patinato” e risvegliare la memoria degli adulti. Dubito che questo libro (o qualsiasi altro, se è per questo) possa “aprire la mente” dei millenials, ai quali, sia detto senza polemica, esso apparirà come un tomo all’interno del quale sono narrati fatti che, tenuto anche conto dell’accelerazione spazio-temporale e tecnologica degli ultimi lustri, potrebbero risalire al Medioevo o, tutt’al più, essere letti con l’annoiata deferenza che si tributa agli eventi storici che non si possono non conoscere. Quanto agli adulti, l’altra fetta di pubblico a cui il libro si rivolge, il rischio che corre Mannucci, narrando e fornendo un punto di vista a senso unico, è quello d’incappare in chi quegli anni li ha veramente vissuti e potrebbe, in un batter di ciglia, se non smentire del tutto i fatti, ridimensionare l’afflato troppo enfaticamente progressista che in molte pagine risulta forse più soffocante delle decine di congiuntivi usati con scolastica pedanteria dall’autore. Il quale – diamo a Cesare quel che è di Cesare anche in questi tempi bui in cui non ci sono più le mezze stagioni – è riuscito a mettere assieme un volume imponente con un linguaggio accessibile e fluido, che non stanca e non annoia: oggigiorno, è quasi un miracolo.

Tolte talune imprecisioni, qualche scivolone ai limiti dell’imperdonabile (su Prince e su Dylan, ad esempio, Mannucci non ha fatto i compiti), e qualche personaggio su cui non ci sarebbe bisogno di spendere più di due righe (Cat Stevens, per sceglierne uno), Il suono del secolo, pur appesantito dalla zavorra dell’ideologia, si lascia leggere con piacere e può essere un buon passatempo senza troppe pretese. A patto che non lo si prenda né come un libro di storia né come un trattato critico, e che si comprenda, una volta per tutte, che sono state proprio queste tronfie mitizzazioni a “uccidere” il “Rock”.

 

[1] Nella sua accezione anglosassone di “popular” e quindi omnicomprensiva dei vari generi, tra cui, appunto, il rock, oggetto del volume in questione.