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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
07/06/2021
I Cani
Il sorprendente album d'esordio de I Cani
Cosa c’era in quel disco, di tanto sorprendente e di tanto rivoluzionario? Di per sé non molto, anche se era evidente che Contessa, nato come compositore elettronico e poco a suo agio dietro al microfono, aveva poco da spartire con chi portava avanti un discorso fatto di chitarre distorte, Lo Fi e malinconia adolescenziale.

L’esordio dal vivo de I cani al Mi Ami del 2011 me lo sono perso perché io e i miei amici avevamo deciso che, nonostante il nostro entusiasmo per il disco e l’hype enorme che si era creato, saremmo andati a vedere Cesare Basile, che si sarebbe esibito alla stessa ora sul Palco Pertini, quello principale.

Succedesse oggi, non credo che lo rifarei: un po’ per posa, un po’ per naturale curiosità, è da un bel po’ di tempo che considero il presente molto più interessante del passato. Oddio, non che Basile nel 2011 fosse il passato, eh! Aveva appena fatto uscire un disco bellissimo (“Sette pietre per tenere il diavolo a bada”), l’ultimo prima della svolta in siciliano che mi avrebbe più o meno definitivamente allontanato da lui. Ma si era ancora in un periodo in cui snobbare la next big thing per il grande artista consolidato mi sembrava un atteggiamento più che consono e tirai dritto.

Rimediai comunque qualche mese più tardi, quando iniziò il vero e proprio tour, che poi si risolse in una manciata di date appena, se non vado errato. A Milano fecero il Tunnel e il locale, non certo tra i più capienti, andò sold out in pochi giorni. Di quella sera ricordo soprattutto la lunga fila all’esterno, più o meno come loro stessi cantavano in “Door Selection”, anche se la gente non era propriamente lì per scopare quanto per rimediare un biglietto.

Il concerto non fu granché: si presentarono con le proverbiali scatole di cartone sulla testa, quelle che sfoggiavano nei primi video caricati su YouTube e che contribuirono a creare quell’aurea di mistero che li circondava all’inizio, tra i primi tentativi di affermarsi attraverso la negazione, tecnica che in seguito anche altri avrebbero seguito, seppur con minore successo. Erano tutti posizionati dietro ad un Synth e tutti smanettarono per l’intero concerto con effettistica ed elettronica varia. Niccolò Contessa cantava, non particolarmente bene, le sue storie di romanità contemporanea, ben diverse da quelle raccontate decenni prima da Venditti e Baglioni, e tutti cantavano a squarciagola come pazzi.

Verso la fine arrivò una cover di “Con un deca” degli 883 e lì, avessimo avuto un po’ di acume e preveggenza in più, avremmo potuto scorgere i primi segni del mutamento culturale che stavamo attraversando: gli 883 erano usciti vent’anni prima, i primi due dischi, quelli dove c’era ancora Mauro Repetto (che all’epoca nessuno capiva cosa facesse ma che probabilmente aveva un ruolo nella scrittura molto più importante di quello che si voleva far credere), li schifavamo tutti, se dicevi di ascoltare roba seria non potevano piacerti, conoscevi i pezzi perché li passavano in radio e magari li canticchiavi pure a qualche festa se li mettevano su; potevano avere il fascino disturbante di un guilty pleasure ma per quanto mi riguarda, ascoltare gli 883 era molto, molto peggio che ascoltare Vasco Rossi: se conosci la musica, se ami un po’ di artisti, se sei minimamente trasversale, quella roba lì non la consideri neanche.

Ecco, quando quella sera Niccolò, presentando “Con un deca”, disse che quel brano lo apprezzava e che in qualche modo lo aveva segnato (non ricordo le parole esatte ma più o meno era quello) non capii che stavamo di fronte ad una svolta: la ascoltai, probabilmente la cantai assieme agli altri, e tutto finì lì.

Qualche anno dopo rockit, tra i primi portali ad accorgersi davvero de I cani e a dar loro spazio, promosse una compilation tributo a Pezzali e Repetto, con contributi dei principali nomi della scena italiana indipendente, quella che dall’inizio degli anni Zero veniva chiamata “Indie”.

Quella cosa lì, quella rivalutazione di canzoni che ai tempi nessuno che ascoltasse i Nirvana, i Pavement, i Massive Attack o anche solo gli Oasis poteva dichiarare di apprezzare, fece capire che probabilmente il quadro era cambiato. Oggi, che ci si lamenta tanto del fenomeno per cui quello che stampa e addetti ai lavori chiamano ancora “Indie” è in realtà un Pop travestito (“Il peggior Venditti”, per dirla con Manuel Agnelli), possiamo forse ammettere senza problemi che cominciò tutto con “Il sorprendente album d’esordio de I cani”.

Cosa c’era in quel disco, di tanto sorprendente e di tanto rivoluzionario? Di per sé non molto, anche se era evidente che Contessa, nato come compositore elettronico e poco a suo agio dietro al microfono, aveva poco da spartire con chi portava avanti un discorso fatto di chitarre distorte, Lo Fi e malinconia adolescenziale.

C’era senza dubbio una piacevole freschezza compositiva, canzoni che sembravano un po’ tutte uguali ma che si muovevano a metà tra una base Electro Dance volutamente grezza, poco rifinita, e melodie vocali irresistibili, con ritornelli trascinanti da singalong obbligatorio. Un disco a suo modo quasi Punk (lo hanno detto in tanti, in questi giorni di celebrazioni, lo posso dire anch’io) e non a caso durante i concerti, soprattutto quelli dei dischi successivi, quando nei bis arrivavano puntuali “Velleità” e “I pariolini di diciott’anni” si scatenava sempre un pogo furibondo.

La vera rivoluzione, io credo, fu nei testi. Comparivano per la prima volta riferimenti precisi, istantanee di situazioni contemporanee (i giovani fascistelli dei Parioli, il piccolo microcosmo di piccole ambizioni in fila per entrare nel locale, la giovane hipster che se la tira leggendo Foster Wallace, le coppie che vanno assieme ai concerti, i ragazzi che pubblicano le loro foto su Flickr), racconti autobiografici pieni di dettagli e densi di autoironia (il pranzo di Santo Stefano dalla propria ragazza, tra le domande curiose dei parenti e la nonna che più tardi li becca in camera, l’improbabile personaggio Post Punk che scriveva su una nota rivista di settore e frequentava solo ragazzini liceali), i nomi di cantanti, registi e qualsivoglia, utilizzati in qualunque modo e in qualunque contesto (Vasco Brondi, che allora era all’apice della fama, Daniel Johnston, che nel 2011 era ancora vivo e che credo fosse l’unico riferimento che nessuno del pubblico medio del gruppo riuscì davvero a cogliere; Saviano, Santoro, Wes Anderson e probabilmente me ne sta sfuggendo qualcun altro).

Niccolò Contessa fu il primo a giocare con queste cose e lo faceva più che bene (oggi lo consideriamo giustamente un grande produttore e arrangiatore ma bisognerebbe parlare molto di più della sua abilità di paroliere), in un periodo in cui la situazione non era ancora sfuggita di mano e non bisognava per forza chiamare un pezzo col nome di una città o col titolo di una serie Tv per avere successo.

Era una tecnica azzeccata perché i giovani si riconoscevano nei riferimenti, che erano sempre ironici quanto bastava perché ci si potesse anche discostare con sollievo, mentre i più stagionati come lo era già il sottoscritto, osservavano con curiosità un mondo di cui non facevano parte ma che riconoscevano come splendidamente raccontato.

Il punto era questo, infatti: per quanto anche nelle uscite degli anni successivi (“Mainstream” di Calcutta su tutti, peraltro prodotto dallo stesso Contessa) vi fosse della qualità, la delicatezza e il talento letterario dei primi testi de I cani non verranno mai più superati. Si può giocare con l’ultra contemporaneo se lo si vive ma soprattutto se si possiede una gamma superiore di conoscenze e riferimenti, in modo tale da poterlo abitare con consapevolezza. L’It Pop è andato in crisi perché in pochi, troppo pochi, hanno davvero la statura intellettuale e artistica per fare quella roba ed essere credibili (anche se forse, come l’esempio dei Måneskin mostra fin troppo bene, vale per un po’ per tutti i generi).

Ed è soprattutto la successiva evoluzione del gruppo che ne mette a nudo più di ogni altra cosa il carattere fuori dal comune: dopo un secondo disco, “Glamour”, che approfondiva le caratteristiche del primo e ne migliorava gli aspetti estetici, configurandosi di fatto come il loro vero grande capolavoro, arrivò “Aurora”, in un momento in cui Calcutta era già una star (aprì i primi concerti di quel tour ma c’era già un sacco di gente che era lì solo per lui o quasi) e l’impressione generale fu che, con delle canzoni volutamente più leggere e dei testi a virare spesso sul romanticismo sdolcinato, Contessa e soci stessero inseguendo quello stesso fenomeno It Pop che solo qualche anno prima avevano inventato.

La verità è molto più complessa e quel disco, che io per primo non apprezzai molto quando uscì (salvo poi scriverne una recensione che provava ad individuarne dei punti di valore), andrebbe riscoperto e rivalutato alla luce di tutto quello che è successo dopo.

Ad ogni modo va tutto a favore di Niccolò Contessa e del modo in cui ha gestito la sua immagine pubblica: avrebbe potuto diventare un simbolo, un’icona generazionale e non lo ha fatto. Ha congelato il gruppo a tempo indeterminato e si è messo a fare quello che faceva anche quando era un perfetto sconosciuto: produrre musica. Ha contribuito non poco all’esplosione di Coez ed ha messo mano ad alcune delle cose più interessanti uscite negli ultimi tempi, da Tutti fenomeni a Laila Al Habash. Sta dietro le quinte ma continua ad essere influente esattamente come dieci anni fa, forse anche più di prima.

Torneranno, I cani? Recentemente il monicker è apparso come featuring ne “Le botte e le strade”, il singolo apripista del nuovo disco di Chef Ragoo, che è uscito il 20 maggio. Che dire? Avrebbe potuto scrivere “Niccolò Contessa” e invece ha scritto “I cani”. C’è dietro un messaggio particolare? O invece è solo la voglia di perculare il pubblico? O piuttosto, molto semplicemente, l’ha fatto totalmente a caso?

Magari a breve le cose si chiariranno. Al momento, l’unica cosa che possiamo fare è celebrare degnamente un disco che dieci anni fa cambiava la musica italiana, in bene o in male sarà sempre una questione eternamente dibattuta.

Che sia stato influente, però, è un dato di fatto. E quando senti Giuse The Lizia, una delle ultime scommesse di Maciste Dischi, che sul palco del Mi Manchi suona “Hipsteria” voce e chitarra, dicendo che in quei mesi in cui era uscito ascoltava solo quello, fai due conti e realizzi che dieci anni fa questo ragazzo palermitano aveva 9 anni. E che per quanto ci si possa riempire la bocca di ragionamenti puristi ed espressioni da solone come “qualità”, “veri strumenti” e “vera musica”, il mondo è andato avanti e l’importanza culturale la si misura sui dati di fatto, non sulle speculazioni.


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