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THE BOOKSTORECARTA CANTA
Il Silenzio
Don DeLillo
2021  (Einaudi)
LIBRI E ALTRE STORIE
all THE BOOKSTORE
14/06/2021
Don DeLillo
Il Silenzio
La fine del Mondo pensando a Mark Rothko.

Sarebbe bello se in tutto il Paese fossero disseminati piccoli luoghi, come una cappella ad esempio, dove il turista o il viandante      potessero sostare per un’ora a meditare, in solitudine, su un unico quadro appeso”  

(Mark Rothko)

 

Quadro I: “Tutti vogliono possedere la fine del Mondo”.

Iniziava in questo modo, con una frase su una fine, il penultimo libro di Don DeLillo, Zero K, e con la prefigurazione della morte di un padre che sceglieva di seguire la moglie malata nel tentativo di eternarsi, attraverso la criogenesi. In un certo senso il nuovo romanzo dello scrittore di origini italiane, Il Silenzio, ne è un’emanazione, quasi a voler tornare sull’argomento da un punto di vista globale; nel primo libro si parlava della fine dei corpi, nel secondo si parla di un’idea di fine del mondo. Si spengono gli schermi e la realtà di comunicazione virtuale in cui siamo sprofondati non esiste più. Lungi dal voler fare una disamina sociologica, DeLillo sembra più interessato ad osservare[i] le relazioni umane e le modalità d’interazione quando le persone sono costrette a guardare quello che sono. Corpi innanzitutto, siamo corpi che vivono in un tempo che mira a smaterializzarci, a immergerci in una bolla virtuale autoreferenziale.

“Cosa succede alle persone che vivono dentro a un telefono?” è una delle domande cruciali di questo breve ma intenso romanzo. Di cosa parliamo quando si spengono gli schermi presenti in modo così pervasivo nelle nostre vite? Perché è questo il fatto centrale: all’improvviso cellulari, computer e monitor si tingono di nero, siamo immersi nel buio senza che l’autore spieghi il perché. All’inizio del romanzo Jim Kripps, mentre è in volo con la moglie per fare ritorno a New York dopo un viaggio in Europa, è intento ad osservare lo schermo che lo rassicura sulla sua posizione geografica nel mondo ma all’improvviso questo si spegne e le coordinate spaziotemporali saltano. L’aereo scende in picchiata verso il suolo. Niente più Superbowl (dato che all’arrivo si sarebbe recato a casa di amici per vedere la finale); niente più controllo sulle vostre vite. Prego signori e signore, allacciate le vostre cinture, stiamo per schiantarci al suolo.

 

Staccando l’ombra da terra.

         “Il mondo era questo adesso?”

          (The Falling Man, Don DeLillo)

 

Il Silenzio esce a vent’anni da un episodio consegnato alla Storia per cui se scrivo le parole aereo in picchiata e New York le nostre menti vanno alle immagini, oramai innestatesi, di quella tragica mattina di settembre. E sono proprio le Twin Towers, o comunque la forma grattacielo, a costituire un motivo grafico ricorrente nelle copertine (mi riferisco alle edizioni italiane da me acquistate nel tempo) dei libri di Don DeLillo. Succedeva con Libra (1988) con a tema l’omicidio Kennedy, per poi passare all’opus magnum Underworld (1997) dove profeticamente in copertina si nota un uccello che si avvicina a quella che sembra proprio essere una delle due Torri, per poi arrivare a L’uomo che cade (2007) il tanto atteso romanzo sull’attentato dell’11 Settembre, che non poteva non avere in copertina dei grattacieli[ii]. Il titolo originale di quest’ultimo, The Falling Man, si riferisce allo scatto fotografico, di cui si parlò in quei giorni, di un uomo che si buttò nel vuoto dal grattacielo in fiamme a testa in giù e con una gamba piegata, per andare incontro alla morte.

La stessa fine che Philippe Petit mise in conto la mattina del 6 agosto 1974 quando decise che avrebbe percorso la distanza tra le due torri camminando a corpo libero su un cavo. Quando scese a terra dopo l’impresa, invece che festeggiare con gli amici, sparì dalla circolazione per un amplesso con una fan; la stessa pulsione che spinge Jim Kripps e la moglie Tessa Berens de Il Silenzio sopravvissuti all’incidente aereo (lo si viene a sapere subito) a nascondersi in un bagno mentre sono in coda in un centro di primo soccorso.

 

“Give a Monkey a Brain and He’ll Swear He’s the Centre of the Universe”

Il titolo dell’album dei Fishbone del 1983 è un buon viatico verso l’argomento sotteso, a mio avviso, a questo romanzo: le scimmie, vale a dire noi, primati che gli eventi mettono davanti al fatto compiuto che ora, al centro dell’Universo ci sia qualcos’altro. Se si spengono gli schermi ed è tutto nero, allora  ecco che davanti ai miei occhi si staglia il monolito nero di 2001: Odissea nello Spazio di Stanley Kubrick e rivedo “L’alba dell’Uomo” con le scimmie che ci girano attorno incuriosite da quella presenza totemica. Lo stesso Spazio a cui mi rimanda la copertina dell’edizione italiana del libro, con quel cellulare di cui vediamo lo schermo come puro vetro opaco, che immagino fluttuare nel nero di un Universo inconoscibile.


Quest’immagine mi riporta ad uno dei famosi tagli di Lucio Fontana che nella mente dell’artista erano squarci, porte metafisiche verso un’altra dimensione, come se lo smartphone fosse l’analogo dell’osso lanciato nello Spazio dalla scimmia kubrickiana e millenni dopo fluttuasse nell’aria come l’astronave nel film al suono di un valzer di Johann Strauss.

Lucio Fontana, Spatial Concept Waiting - (1967, un anno prima di 2001: A Space Odissey)

Fluttuare nell’aria come su un aereo che all’improvviso scende in picchiata verso terra (come il falling man del romanzo di DeLillo). La pulsione carnale della coppia scampata al disastro, quasi fosse una violenta conferma a sé stessi del fatto di essere vivi è la stessa che deve aver provato Philippe Petit, sceso vivo da quell’altezza, ed è lo stesso richiamo carnale che Nicole Kidman pone al marito al termine di Eyes Wide Shut (sempre Kubrick e le scimmie[iii]) dopo essere scampati al loro disastro di coppia. Quel “Let’s fuck” con cui terminava il film era sì un richiamo al corpo, ma anche l’apertura di un varco di comunicazione tra marito e moglie dopo che Tom Cruise aveva vagato cieco per tutto il film dominato da un desiderio puramente onirico. Colpisce in questo senso una frase di un’altra donna protagonista ne Il silenzio, Diane Lucas, quando dice che è sposata da così tanti anni che oramai lei e il marito non si guardano più nemmeno in faccia. 

Perché è questo l’altro argomento fondante nel libro: l’assenza di relazioni.

Ci vengono mostrate delle persone che sembrano interagire tra di loro ma che in realtà sono delle categorie irrelate; lo dimostra bene il padrone di casa, Max Stenner, che attende gli amici per vedere la partita (pensandoli in comodo atterraggio), il quale ad un primo smarrimento di fronte allo schermo nero, inizia a inventarsi una telecronaca come a volersi aggrappare alle coordinate di un mondo che non c’è e non ci sarà più[iv]. Perché invece di rivolgersi a chi è con lui in quella stanza preferisce guardare uno schermo? Cosa ci vede riflesso quest’uomo?

Guardo lo specchio e non so chi è la persona che ho davanti” afferma Martin, ospite ed ex-allievo di fisica di Diane che lascia il marito alla sua partita ideale per discutere con lui di temi più alti. “Lo specchio è davvero una superficie riflettente? (…) la faccia di ognuno di noi. Cos’è che vedono gli altri quando camminano per strada e si guardano a vicenda? (…) tutte le nostre vite, tutto questo guardare. La gente che guarda. Ma cos’è che vede?”  

 

Quadro II: la Rothko Chapel.

“Nella pareti del vestibolo (Michelangelo) ha raggiunto proprio l’effetto che sto cercando io: fare in modo che l’osservatore abbia la sensazione di trovarsi intrappolato in una stanza in cui tutte le finestre e le pareti sono murate, e che l’unica cosa che gli resti da fare è sbattere in eterno la testa contro i muri”.

          (Mark Rothko)

Seduto, in poltrona. Pronto per lo show. Pronto a ricevere il mondo in casa attraverso uno schermo, uno spettacolo o una guerra (le partite del Superbowl sono contrassegnate con numeri romani a richiamare l’epica dei gladiatori) dato che in questo sport si deve atterrare l’avversario per impedirgli di vincere.

“E poi a un certo punto lo schermo diventò nero”.

E il mondo sparisce. Resti attonito, ma ti riprendi subito e inizi a raccontarla tu la partita; la immagini e fai tu la telecronaca, comprese le pubblicità. In qualche modo il tuo mondo deve proseguire perché altrimenti ti piove addosso la domanda cruciale che qualcuno nella stanza descritta dal libro osa porre:

“È questo l’abbraccio casuale che segna la caduta della civiltà mondiale?”

Un abbraccio, come un placcaggio nel gioco del football per impedire che l’avversario arrivi alla cosiddetta End Zone[v] per il touchdown, vale a dire lo schianto della palla fatta volare di mano in mano e finalmente sbattuta a terra per fare punto. Questa volta, però, Max Stenner non potrà far altro che restare seduto, inerte nella sua poltrona mentre attende l’arrivo dell’amico, ignaro che questi stia sprofondando nel cielo seduto in un’altra poltrona; non gli resta che fissare quel rettangolo nero.   

“Non era una normale distorsione del segnale: era un senso di profondità, forme astratte che si componevano per poi dissolversi secondo una cadenza ritmica, una serie di unità elementari che davano l'impressione di proiettarsi in avanti per poi retrocedere. Rettangoli, triangoli, quadrati”.

Rettangoli, come la forma che contraddistingue le opere del pittore Mark Rothko a cui ho subito pensato quando ho provato ad immaginare uno schermo nero. Eccomi, allora, anch’io sprofondato dentro alla Rothko Chapel, la cappella ottagonale dove si possono contemplare quattordici tele nerissime[vi], quattordici come le stazioni della via Crucis. In realtà la cappella, aperta a tutte le confessioni, vuole essere uno spazio, un luogo di riflessione e di pura contemplazione per tutti, anche per chi non crede. La sua disposizione potrebbe essere vista anche come una sala da cinema in cui lasciarsi andare alla visione davanti a questi schermi, per scoprire ad un’attenta osservazione che quegli strati di nero sono in realtà mescolati con altri colori le cui variazioni si possono notare con il variare della luce. In uno di questi rettangoli potremmo inserire il monolito nero di Stanley Kubrick, questa porta che apre verso spazi astrali fino a raggiungere i buchi neri di cui parla Martin (il giovane ospite ex-allievo della professoressa di fisica Diane Lucas,) che ad un certo punto pronuncia: “Gesù Cristo di Nazareth”.

La stanza settecentesca come approdo del viaggio interstellare,

quasi un’anticipazione della prospettiva della Rothko Chapel. Siamo al cospetto di Dio?

 

Il nome radioso come ricorda Martin, ossessionato dalla teoria della relatività e che ricorda la frase di Albert Einstein, ebreo affascinato dalla figura luminosa del Nazareno (pag. 38 del libro), così come Rothko di origine ebraica, ma non credente, che era attirato dall’idea di lavorare per una chiesa cattolica, secondo la prima idea - poi non realizzata - dei due magnati petrolieri John e Dominique de Menil, mecenati della Rothko Chapel[vii].

 

Il silenzio.

   Il silenzio è così accurato

           (Mark Rothko)

 

Quattordici tele, come le stazioni della Via Dolorosa del Nazareno, un’opera d’arte patrimonio dell’Umanità come ricorda una delle amanti di Eric Packer, protagonista di Cosmopolis, film che David Cronenberg ha ricavato dall’omonimo romanzo di Don DeLillo. Eric è un giovane milionario - ha la stessa età di Patrick Bateman il finanziere serial killer di American Psycho raccontato da Bret Easton Ellis - che viaggia sprofondato nella sua limousine mentre insiste in una folle corsa contro lo yuan cinese che lo porterà alla rovina. Al termine di un viaggio attraverso la città di New York per farsi tagliare i capelli nel giorno in cui è in visita il Presidente degli States, arriverà a spararsi esattamente al centro della mano, quasi a volersi creare una stimmata per ricordarsi di essere vivo, di avere ancora un corpo. Nella sua megalomania chiede alla sua agente per l’Arte di lanciare una proposta per l’acquisto della Rothko Chapel che visualizza su uno dei suoi schermi all’interno della vettura. Il luminoso Rothko, come lo definisce Packer così come è luminoso il Nazareno per Martin Dekker ne Il silenzio.

La Rothko Chapel

 

La scena ideata dalla mente visionaria di Cronenberg è potente perché crea un effetto di scatole cinesi in quanto la ripresa dell’interno della vettura, a mio avviso, ha la stessa prospettiva della cappella di Houston e Eric Packer vive seduto nello stesso ambiente di Andy Warhol ritratto in una famosa fotografia all’interno di una limousine. Warhol, proprio l’artista che come ricorda Alessandro Carrera nel suo libro[viii] dedicato alla Cappella voluta dai coniugi De Menil, era la bestia nera di Rothko, che quando lo incontrava addirittura si rifiutava di salutarlo.


La Black Warhol Chapel, nel colore nero il corpo scompare (mia interpretazione)

 

La cosa è comprensibile se pensiamo alla distanza della poetica artistica dei due: Warhol il serialista, colui che ha nobilitato e reso celebre una zuppa, simbolo del mercato, lo stesso mercato a cui non vuole rinunciare Max Stenner ne Il Silenzio pronto a godersi durante la partita i mille spot che saranno messi in onda (“se li gode tutti” - ricorda la moglie) e che di fronte all’interruzione della visione li declama ad alta voce come se oramai fossero parti del suo Dna. Dovrebbe però ricordarsi proprio di una della massime che pronuncia Eric Packard nella sua limousine: “Il denaro ha perso la sua qualità narrativa, come è accaduto alla pittura tanto tempo fa. Il denaro parla a sé stesso”, e vedersi mentre chiuso in una stanza assieme ad altri non fa altro che parlare a sé stesso.


Uno degli analisti di Eric Packard all’interno della limousine

in Cosmopolis di David Cronenberg

 

Murals.

Non ricordavo a caso il protagonista dello sconvolgente romanzo American Psycho, emblema di quella folle rincorsa del linguaggio della Borsa che attraversò gli anni ’80, culminati nel crollo di Wall Street del 1987 che a mie piace associare allo “Save the Yuppie Concert” organizzato da Bono mentre con gli U2 conquistava l’America con il Joshua Tree tour[ix]. Nel libro Bateman e i suoi amici sono sempre alla ricerca dei ristoranti più cool dove mettersi in mostra. Mentre leggevo questo libro pensavo spesso a Mark Rothko che accettò la proposta di dipingere grandi tele per il ristorante che sarebbe stato ricavato all’interno del grattacielo che Mies van der Rohe stava realizzando per conto della Seagram Corporations. Mi riferisco ai Seagram Murals, rettangoli dai colori molti cupi creati appositamente dall’artista con lo scopo di far andare di traverso il cibo ai ricconi presenti, al punto da arrivare a dire che se il ristorante avesse rifiutato i suoi quadri lo avrebbe considerato come un onore[x]. L’intento del pittore era quello di far sentire l’osservatore come chiuso in una stanza dalle porte e finestre murate al punto da arrivare a sbattere la testa contro i muri, ma recatosi a cena con la moglie per una sorta di sopralluogo esplorativo, si rese conto che nessuno dei presenti avrebbe osservato i dipinti. Fu così che, con tipico gesto dettato dal suo carattere bellicoso, dopo aver realizzato in studio ben tre cicli di opere per un totale di quaranta tele, decise di rinunciare ad esporle, scelta che ebbe una pesante ricaduta economica ma che gli fece riconquistare la verginità artistica che molti colleghi gli contestavano dopo l’iniziale accettazione dell’incarico[xi].


Uno dei Seagram Murals di Rothko;

due segni, strisce verticali come grattacieli.

 

Mark Rothko ci ha lasciati cinquant’anni fa, togliendosi la vita prima di vedere inaugurata la cappella di Houston alla quale si era tanto dedicato. Se fosse ancora tra noi forse avrebbe gradito la scena del film Cosmopolis in cui alcuni “terroristi” entrano nel ristorante dove si trova Eric Packer brandendo dei topi e ripetono come un mantra l’esergo dell’omonimo libro di DeLillo tratto da un poema di Zbiegnew Herbert: “Il topo divenne l’unità monetaria”, frase che rimanda ad una visionarietà proiettata su un altro mondo, su altre coordinate e su un’idea di temporalità diversa da quella che abbiamo conosciuto fino ad ora[xii]. Calzano a pennello, allora, le parole dell’analista del milionario Packer che dentro alla limousine cerca di farlo desistere dalla folle corsa contro lo yuan (ma Eric è un combattente, come un giocatore di football che deve placcare l’avversario):

Il tempo è un bene aziendale, appartiene al libero mercato. Il presente è più difficile da trovare, lo stanno risucchiando fuori dal mondo per far posto a un futuro di mercati incontrollati ed enormi potenziali di investimento. (…) Ecco perché presto accadrà qualcosa”.

Questo “qualcosa” è rintracciabile nelle parole di Mark Rothko, quando affermava che l’unico equilibrio possibile è quello precario che precede l’istante del disastro. Analizza acutamente in questo senso Alessandro Carrera nel citato libro, quando scrive che “ci troviamo in un momento di sospensione (…) che racchiude in sé tutto il possibile che deve ancora accadere. Un fermo immagine gravido di movimento”.

Quel qualcosa è lo spegnimento degli schermi adombrato da Don DeLillo, possibilità contro cui cozza il giovane milionario il quale risponde: “Voglio andare a baciare sulla bocca il mio computer”. Citazione autoreferenziale che David Cronenberg fa di sé stesso riallacciandosi al suo film Videodrome, opera seminale, con cui nel 1982 profetizzava l’avvento di quello che ne Il silenzio di Don DeLillo avviene nel 2022, in un frame che quarant’anni fa rappresentava perfettamente l’epoca in cui viviamo.


(Videodrome, David Cronenberg)

 

Max non ascolta. Non ha capito niente. Sta seduto davanti al televisore con le mani intrecciate sulla nuca, i gomiti all’infuori. E poi fissa lo schermo nero.”[xiii]

(Il silenzio, Don DeLillo).

 

Carnage

Perché chiudere con il riferimento ad un album il cui titolo significa Carneficina? Perché Hand of God come canzone di chiusura? Perché l’ho ascoltata poco dopo aver concluso questo scritto e nei primi secondi i suoni violenti mi hanno ricondotto allo schianto dell’aereo che cade all’inizio del libro. Ero tentato di non spiegare nulla, pensando che si sarebbe capito ma poi mi sono visto anche io come chiuso nella stanza della mia mente, immobile e solo come Max Stenner che spera ricominci la partita. Carnage è un album che nasce da una condizione di isolamento, la stessa che per certi versi abbiamo sperimentato tutti, messi a dura prova nelle nostre abitudini dalla pandemia; lo stesso isolamento patito da gran parte dei protagonisti dei romanzi di Don DeLillo. I primi versi della canzone delineano le diverse aspettative di almeno due dei personaggi de Il Silenzio:

 

There are some people trying to find out who  (Martin Dekker)

There are some people trying to find out why  (Diane Lucas)

There are some people who aren't trying to find anything

But that kingdom in the sky, in the sky

 

Qualcuno cerca nient’altro che il Regno nel cielo dice la canzone, qualcun altro nel romanzo, invece, cita a memoria la teoria della relatività: entrambe queste posizioni sono riconducibili a Zero K (libro con cui avevo iniziato questo scritto) con il protagonista seduto su un pullman che vaga per le strade di New York (quel reticolo le cui linee fanno pensare all’ortogonalità delle opere di Rothko), mentre osserva lo stupore di un bambino urlante di gioia nel vedere il sole. Di fronte a questo stupore al protagonista non resta che la disposizione migliore per ascoltare: il silenzio.

“Quando è seduto da solo a casa in una stanza silenziosa e ascolta con attenzione: cos'è che sente? Non il traffico nelle strade, non le voci, la pioggia o una radio da qualche parte, (…) Non si tratta del suono del silenzio o di rumori di fondo. È qualcosa che può cambiare man mano che l'esperienza dell'ascolto si fa più profonda, di secondo in secondo, e ora il volume aumenta: non perché si fa più alto, ma perché in un certo senso si fa più largo, si sorregge, si abbraccia. Che cos'è? La mente, la vita stessa, la sua vita? Oppure è il mondo, non la massa di materia, terra e mare, ma quello che popola il mondo, la marea dell'esistenza umana.”  (Zero K, Don De Lillo).

[Editing: Ornella Genua]

 

[i] Don DeLillo sin dal primo libro, Americana (1971), ha manifestato il suo interesse per il Cinema, con il protagonista che

  a bordo di un camper intraprende un viaggio per realizzare un film sull’America fino al più recente Punto Omega (2010)   

  che si apre con la descrizione dell’installazione di Gordon Douglas 24Hours Psycho, celebre dilatazione temporale del

  famoso film di Alfred Hitchcock.

 

[ii] Sarebbe da menzionare anche la copertina del suo libro Mao II che già nel titolo con quelle due stanghette verticali e

  l’immagine duplicata di Mao nel famoso dipinto di Warhol richiama i grattacieli.

 

[iii] Il romanzo di DeLillo si apre con la citazione della famosa frase di Albert Einstein per cui la Quarta Guerra Mondiale si   

  sarebbe combattuta con clave e bastoni.

 

[iv] Questo tema deve stare molto a cuore a Don DeLillo poiché nel romanzo Mao II scoprivamo che il protagonista Bill

  Gray da piccolo si chiudeva nella sua stanza ad inventarsi telecronache delle partire di baseball; analoga situazione si

  verificava in End Zone, con uno dei giocatori della squadra di football che nella sua camera si allenava a diventare un

  commentatore televisivo.

 

[v] Titolo del secondo romanzo di Don DeLillo del 1972, ambientato nel mondo del football con il protagonista che vive

   l’angoscia di un possibile disastro nucleare.

 

[vi] In realtà, se ci si dà tempo per osservarle a fondo, si può notare come in realtà nascondano un impasto formato da   

  più colori.

 

[vii] Rothko sosteneva che non avrebbe mai dipinto per una sinagoga.

 

[viii] Alessandro Carrera, Il colore del buio, ed. Il Mulino, 2019.

 

[ix] Un capitolo del libro è dedicato alla partecipazione di Bateman e soci ad un concerto degli U2, ma presi da sé stessi   

  non saranno in grado di cogliere il momento legato all’eccezionalità di quel tour e se andranno a mangiare prima  

  della fine.

 

[x] “I più ricchi bastardi di New York andranno a nutrirsi e a pavoneggiarsi (…) spero di dipingere qualcosa che sia in   

    grado di rovinare l’appetito di ogni figlio di buona donna che mangerà in quella sala.”

 

[xi] Nove di queste tele furono donate nel 1969 alla Tate Gallery di Londra a patto che rimanessero esposte insieme.

 

[xii] Fa eco a questa diversa temporalità “L’anno di Glad” con cui inizia Infinite Jest di David Foster Wallace.

 

[xiii] Sarebbe interessante chiedere a Don DeLillo se sul monitor con cui si concludeva Underworld campeggi ancora la

   parola: PACE.

 

 

 

 

 

 

 

 

   


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