In giorni in cui chiunque possieda uno smartphone, un programma (che sia un'applicazione o un photoshop craccato) capace di modificare i filtri, chiunque si crede un fotografo.
C’è chi però fotografo lo è davvero, fotografo lo è di professione e ha costruito negli anni una carriera invidiabile, ma soprattutto così intensa da dover essere raccontata.
Persone che hanno fatto della loro passione, dell'arte, un lavoro, senza cercare la gloria, ma perseguendo un determinato obiettivo.
Se John Maloof ci ha fatto conoscere un occhio sublime e intenditore, che mai purtroppo è stato scoperto in vita come quello di Vivian Maier, il regista Wim Wenders mette davanti al suo di obiettivo un vero artista, riconosciuto e acclamato da pubblico e critica: Sebastião Salgado.
Nel farlo, fa più di una biografia sulla sua vita e sulla sua opera, ma ci fa scoprire l'uomo, l'occhio, il cuore che ha girato il mondo e ce lo ha fatto conoscere nel bene e nel male.
L'impianto del documentario è così sia classico che diverso, con la vita fatta scorrere dall'inizio al presente, con i progetti, i volumi, a fare da spartiacque.
In questo senso, è fondamentale la presenza di Juliano Ribeiro Salgado, figlio di Sebastião, come aiuto regista, che proprio quel padre mitizzato da bambino come l'esploratore indomito che tornava a casa, ha imparato a conoscere, finendo per seguirlo in molte delle sue spedizioni.
Insieme, raccontano e mostrano, facendo di un soggetto abituato a stare dietro, a nascondersi e annullarsi con la sua camera, quello invece da indagare, da mostrare e da essere inquadrato.
Conosciamo Sebastião bambino, nella sua Fazenda rigogliosa, con la natura a fargli da contorno e la strada dell'economia spianata. Lo vediamo rapportarsi tardi, a Parigi, con la prima macchina fotografica, portarla sempre con sé, rischiare decidendo di mollare tutto, anche -ma solo per i viaggi più pericolosi- la moglie e il figlio, per diventare fotografo, per raccontare e far conoscere nuove realtà.
C'è del pragmatismo dietro tutto questo, c'è una dichiarazione d'intenti, studiata a tavolino, su cosa voler mostrare: gli esodi, la fame, quella parte di mondo nascosta che si vuole dimenticare, ma che non si può dimenticare.
Eccola, la missione di un fotografo, la missione di Salgado: aprire gli occhi, farli aprire davanti all'orrore, davanti alla miseria e alla povertà.
Il documentario, e Wenders stesso, premono su questo capitolo, ci fanno provare dolore e sofferenza, ma basta poco per capire che è solo un'infinitesima parte di quella provata dai soggetti fotografati e di quella provata anche da chi li ha fotografati, quell'uomo scavato e invecchiato che tutto il male passato sul suo obiettivo ha macchiato, segnato.
E allora come un'ultima speranza, come un atto d'amore egoistico ma allo stesso tempo generoso, quel male viene appianato con la natura, con la bellezza e la rinascita che risponde al nome di Genesis.
Gli occhi tornano a inumidirsi, e questa volta le lacrime che si seccavano possono sgorgare, perché se per l'umanità non sembra esserci, e non sembra necessaria la salvezza, per il nostro pianeta sì.
Si alternano immagini di repertorio, interviste nuove e vecchie, dal bianco e nero si passa al colore, dalle fotografie al video, con una cura estetica resa ancora più marcata visto il soggetto da indagare.
Si alterna la voce di Wenders, fan e regista, di Salgado, narratore e protagonista, per un documentario in cui si resta a bocca aperta, in cui quelle fotografie incantano e fanno male.
E conoscere l'uomo che le ha fatte, arricchisce.