Pur sconfinando e affidandosi ad attori di alto calibro del circolo di Hollywood, Lanthimos non dimentica le sue origini nemmeno ne Il sacrifico del cervo sacro, e a partire da Ifigenia in Aulide, costruisce una storia che non si può che definire inquietante.
La storia di un sacrificio, al quale è chiamato uno stimato chirurgo.
La storia di una vendetta, servita fredda, servita dopo mesi di amicizia che si trasforma in stalkeraggio.
La storia della crisi di una famiglia, del suo disfacimento borghese, che in realtà sa superare inquietantemente bene questa crisi.
Meglio non dire troppo di una sceneggiatura che fa di dialoghi scarni ed emozionati il suo punto di forza, meglio non parlare oltre di un piano malvagio, la cui veridicità è sempre in bilico, meglio soffermarsi sugli sguardi, invece: quello confuso ma allo stesso tempo sicuro di sé dell'inquietante Barry Keoghan, quello smarrito, incapace di far fronte a uno scacco matto prima, a una scelta doverosa poi, di un marito e padre chiamato all'impossibile, quello volitivo di una moglie che bada alle apparenze, che pragmatica non si lascia scombinare se non dall'impotenza del marito, e quello complice, di certo assoggettato, di una figlia al primo amore.
Bastano questi sguardi a comporre un quadro, una storia, che come sempre si fatica a concepire, a capire per come mette i brividi.
Come una parabola biblica, però, come una tragedia greca, il sacrificio c'è, da sempre è contemplato anche se poco osannato al giorno d'oggi.
Se i dialoghi quasi atonali fanno sentire la freddezza di una famiglia in cui l'amore è anestetico, ci pensa la regia di Lanthimos a creare sussulti di estasi, con la sua geometria perfetta, con la ricerca di nuovi punti di vista, con scene che spezzano il fiato per la loro bellezza (Ellie Goulding cantata sotto un albero, la seconda caduta del piccolo Bob) e con quegli interni luminosi e pure caldi a tratti, asettici e vuoti in altri.
Se Colin Farrell è diventata una sicurezza scegliendo progetti ostici ed interessanti, Nicole Kidman sempre in ottima forma fa pensare a quel Kubrick che qua e là influenza Lanthimos, vuoi per l'overture buia, vuoi per quella musica classica che fa da contrappunto e all'inquietudine sempre latente, e fa pensare pure alla violenza psicologica, spinta di un certo Haneke.
Paragoni mica da poco.
Qui c'è il sangue però, c'è una scelta lasciata al caso -ma forse non del tutto-, c'è della follia e c'è la tragedia, e ci sono un finale, una composizione e una struttura giustamente premiate a Cannes. C'è il grande cinema, soprattutto, c'è personalità, quella che urtica, osa, fa discutere e non può lasciare indifferenti.