Mattia Del Moro giunge all’esordio da solista dopo un passato in alcuni progetti amatoriali ed un Ep pubblicato due anni fa sotto al monicker di Delta Club. Non è più giovanissimo e si sente da subito, che la sua proposta non è un qualcosa che può andare ad intercettare nell’immediato i bisogni delle nuove generazioni.
Forse, di primo acchito, l’elemento che ci ha fatto innamorare immediatamente de “Il primo viaggio” è esattamente questo: l’esigenza, a volte pressante, di scovare un artista che sappia fare a meno delle formule elementari di comunicazione, dell’istintività ammiccante e dei suoni in digitale a volte fin troppo rassicuranti, per andare ad esplorare territori più sofisticati e forse anche più “adulti”, senza per forza arrivare a chiedersi (come da noi succede fin troppo, ultimamente) se questo aggettivo debba per forza essere associato ad un pedissequo omaggio alla nostra tradizione cantautorale.
L’artista friulano non sembra comunque essersi fatto chissà quali problemi: ha iniziato a scrivere queste canzoni un po’ di tempo fa, è entrato in studio nel momento in cui è riuscito a dar loro una forma soddisfacente, facendosi coadiuvare da due nomi come Mario Conte (Meg, Colapesce) e Andrea Suriani (Cosmo, Calcutta, I Cani, Coez), dimostrando quindi di voler restare al passo coi tempi pur con una proposta che i fan delle band sopracitate difficilmente prenderanno in considerazione.
Quel che le otto canzoni di questo disco rivelano è infatti molto vicino al Lucio Dalla più “classico”, quello compreso tra la seconda metà degli anni ’80 e i primi ’90, senza neppure tralasciare gli stilemi del Battisti meno lineare, con un impasto sonoro e certe soluzioni melodiche che ricordano a tratti l’ultimo Colapesce (uno che, del resto, i mostri sacri di cui sopra li ha masticati a dovere).
Insomma, un’atmosfera ed un feeling generale che ci ha in qualche modo evocato band come Non Voglio che Clara, Valentina Dorme o Virginiana Miller, dedite a quello svecchiamento della tradizione che, fino a poco meno di dieci anni fa, pareva il modo più diffuso e sicuro per affermarsi nel panorama contemporaneo. In seguito, sono successe tante cose, è arrivato Calcutta, è arrivata la Trap e, senza nulla togliere a nessuno (chi mi legge sa benissimo come io apprezzi molti dei nomi che vanno per la maggiore), la formula è improvvisamente mutata.
Allo stesso tempo, però, le maglie della rete si sono talmente allargate che oggi può passare veramente di tutto: ragion per cui questo esordio di Delmoro, seppur difficilmente otterrà numeri importanti, ha tutte le possibilità di guadagnare consensi e di farsi notare.
Formula breve (mezz’ora o poco più) ma ambiziosa, con un recupero della formula del concept album che, almeno in Italia, non si era praticamente mai vista se non in ambito Progressive (anche se forse un disco come “Amore non amore” potrebbe rientrare nella categoria). La storia è quella di un viaggio che una famiglia di quattro persone (padre, madre e i due figli, un maschio e una femmina) decide di intraprendere così, di punto in bianco, su proposta del capo famiglia, non senza una certa sorpresa da parte degli altri (“Non sento bene”, il pezzo di apertura è proprio la telefonata che la sorella fa al fratello per comunicargli la cosa) e senza che gli scopi siano più di tanto chiariti.
Durante il percorso, che si snoda attraverso otto tappe corrispondenti ciascuna ad una canzone del disco, ci sono istantanee di paesaggi, descrizioni fulminee di sensazioni, frammenti di dialoghi, sparute considerazioni. Non si riesce a capire tutto, complice anche una voce molto dentro agli strumenti, con le parole che risultano spesso inintelligibili (in rete i testi non si trovano) ma si intuisce che alla fine ciascuno tornerà diverso da come era partito e che il passato acquisterà in qualche modo un senso, in un futuro ancora tutto da scrivere e che avrà molte probabilità di essere roseo.
Il tutto descritto da canzoni che, pur con il difetto di assomigliarsi un po’ troppo (per via soprattutto delle linee vocali) sono bellissime ed evocano atmosfere ora malinconiche, ora sognanti, con un sound in generale molto pieno ed avvolgente, tra tappeti di Synth, contaminazioni elettroniche ed un lavoro di batteria molto dinamico che incorpora ritmi differenti, anche sudamericani (la strumentale “7:15”).
Tra rievocazioni nostalgiche di quando i dischi te li compravi e li imparavi a memoria (con tanto di citazione di “Com’è profondo il mare”) e la necessità, espressa nella conclusiva title track, di superare la “paura di non essere speciale, che non sei niente in questo mare”, “Il primo viaggio” è un’opera prima matura e perfettamente rivelatrice delle capacità del suo autore. Che, probabilmente, proprio perché sa di non essere speciale, ha potuto tirar fuori un disco sincero e suggestivo, che ci accompagnerà ancora a lungo per i mesi a venire. Abbiamo scovato un talento vero.