Quando non c’erano i CD, c’era Tape Art.
Milano, come notoriamente sostengo da circa 25 anni, non è capace quasi mai di vere novità. Eppure, per diverse ragioni, la mia città dispose di un negozio che era un club esclusivo.
Si chiamava Tape Art.
Apparentemente un negozio di dischi, in realtà un luogo di conversazione, di edonismo, di azzeramento di ogni eventuale differenza sociale fra i suoi frequentatori; però anche incapace – per scelta – di trattare con chi non era degno di entrare a far parte di una clientela la quale magari pagava a caro prezzo un disco, salvo vedersi offerto l’aperitivo minuti dopo.
A bene vedere non è che ci fosse nulla di magico: i dischi più o meno arrivavano dai grossisti e si trattava di selezionarli per la clientela.
Quando sceglievi l’unica copia pervenuta a Milano di un doppio bootleg di Adam And The Ants (o Antz), le cose si complicavano. Inserirlo nella “vaschetta” delle novità o tenerlo da parte e proporlo solo ai clienti? Appunto.
Qualche importatore mangiò la foglia e aprì dei negozi, dove anche andavamo, però Tape Art era altra cosa: stava alla bottega tradizionale come Frigidaire stava a Topolino.
Nicola, disc-jockey del Plastic, certe volte comprava due copie di un disco in battuta, capitava anche che di un disco, seppure ufficiale, arrivasse un solo esemplare e allora era un problema, ma già i turbamenti sorgevano in caso di duplice copia.
Ricordo di essere stato fra quelli cui (grazie) in qualche occasione veniva riservato l’appellativo “mitico”, ma circa 35 anni fa.
Ricordo che quando uscì, ai primi di novembre del 1982, A Kiss In The Dreamhouse di S&TB, andai io dall’importatore a ritirare il disco (con il mio maggiolone VW nero di seconda mano) perché era tardi, però si capiva che ci tenevo, considerati anche i problemi alle corde vocali che Siouxsie aveva avuto in quell’anno. Si fece l’intera vetrina: 30 copie o giù (dopo le mie due, scelte maniacalmente) di lì che ormai era ora di cena.
Ricordo anche i miei passaggi nel 1983 dopo le numerose ricerche per la mia tesi alla vicina Università Bocconi, io studente della Statale: i discorsi erano quelli da bar, però si sostituivano le squadre di calcio con gli artisti e così ce n’era per tutti, e ognuno a evocare concerti, nastri delle Peel Session acquistati o scambiati per corrispondenza… naturalmente non era obbligatorio comperare, magari stavi lì due ore e poi te ne andavi, poteva essere un chill-out dopo lo studio o il lavoro (la mattina era meglio passare dopo le 11.00 per non rischiare la saracinesca ancora abbassata).
Non ho fatto feste per la mia laurea, sicuramente uno dei più sentiti giri di brindisi lo feci da Tape Art.
Tape Art era come i pochi, veri, after hour che si svolsero a Milano a metà degli scorsi anni ’80: catch it/them while you can.
Non perché eravamo giovani, ma perché proprio ci si divertiva in quello stretto negozio da una sola luce in Corso di Porta Vigentina fra i civici 26 e 28, di cui ancora conservo l’ormai inesistente numero di telefono (oppure segnala ancora occupato il xxxx411? Come quando al telefono Sergio stava magari parlando dei fatti suoi con un amico o corteggiando una ragazza e tu fremevi invano per sapere cosa era arrivato o, peggio, “se era arrivato…”!).