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MAKING MOVIESAL CINEMA
Il minestrone
Sergio Citti
1981  (Medusa Distribuzione)
COMMEDIA
all MAKING MOVIES
02/04/2021
Sergio Citti
Il minestrone
Il minestrone è un road movie dove al posto del percorso di formazione dei protagonisti c'è la fame, pura e semplice, e tutti i tentativi frustrati di un gruppo di personaggi per metterla a tacere.

Maestro: La fame si sente, non si vede. Come un'altalena invisibile, va e viene, va e viene. Quando mangi se ne va via, quando caghi ritorna.

Giovanni: Furba eh? Sta lì ferma e nessuno le dice niente. Va e viene, va e viene.

Francesco: Scusate maestro, qui state parlando con un esperto. Non sono d'accordo che la fame va e viene. La fame è una malattia. Viene e non se ne va più.

Cameriere: Sì, è vero. È... come un documento, una carta d'identità, un passaporto.

Maestro: La fame è come l'anima.

Giovanni: che ci lascia dopo morti.

Francesco: Ando' stà la fame? Si l'acchiappo me la magno a mozzichi, ndo sta', ndo s'è nascosta?

Giovanni: Sta qua, sta tutta qui dentro, e nun esce sta carogna! E nun c'è niente per farla uscire.

Maestro: Basta mangiare

Giovanni: Che? E che se magnamo?

Il cinema della fame. Forse al giorno d'oggi il cinema della fame non si fa più, almeno nei paesi occidentali, questo è cinema che nasce dalla fame e rappresenta la fame per la fame, dove il cibo non è metafora di un capitalismo che sprona il consumo smodato (La grande abbuffata di Ferreri) o di potere (anche se qualche accenno a questi paralleli in almeno una sequenza è anche qui presente), questo è il cinema che segue quello dei borgatari di Pasolini, straccioni e accattoni, gli affamati de La Ricotta, episodio sempre pasoliniano di Ro.Go.Pa.G., gente che deve in qualche modo mettere insieme pranzo e cena e spesso non ci riesce a causa di una condizione sociale ai margini. Sergio Citti arriva proprio dal cinema di Pasolini, sceneggiatore di Accattone e Salò, poi attore, passa dietro la macchina da presa sul nascere dei 70 con Ostia, il discorso sulla fame torna in altri momenti della sua filmografia, basti pensare alle sequenze di Casotto con Proietti e Franco Citti (fratello del regista) affamati oltremisura; ne Il minestrone, lungo presentato dalla Rai diviso addirittura in tre puntate e ora disponibile su Raiplay, torna anche quella visione itinerante del cinema, lo scenario che passa dalle borgate romane che pretendono d'esser mostruosamente moderne alle campagne, e via via verso altre regioni, gli orizzonti qui si ampliano oltremisura alla ricerca di un rimedio alla fame che porterà i protagonisti dalle periferie di Roma fino alle vette della Valsugana. Ma la fame è un mostro, come si sconfigge un mostro che torna e torna e torna? Come da dialogo in apertura la fame è come l'anima, te la porti dentro, non te ne puoi separare, la puoi lenire momentaneamente e subito rieccola, non c'è rimedio, l'unica è mangiare! Si, ma che? Che se magnamo?

Francesco (Franco Citti) e Giovanni (Ninetto Davoli) sono due poveracci della periferia romana, rovistano nell'immondizia per trovare qualcosa da mangiare, incappati insieme in diverse disavventure finiscono in cella dove faranno la conoscenza di un altro miserabile che prenderanno a chiamare il Maestro (Roberto Benigni), uno vestito bene, dai modi più raffinati e che gira tutti i ristoranti e le trattorie di Roma facendo il vento, cioè scappando prima dell'arrivo del conto. Rimessi in libertà i tre tenteranno d'applicare gli insegnamenti del Maestro ma riempire la pancia rimarrà impresa ardua. Finiti accidentalmente in Toscana i tre inizieranno un viaggio itinerante allo scopo di lenire la fame, alla piccola combriccola si unirà prima un cameriere maltrattato (Fabio Traversa), poi via via il gruppo si farà più nutrito (ma solo di numero, tutti sempre a digiuno) e conterà su nobili decaduti, aspiranti suicidi e santoni improbabili (Giorgio Gaber). La fame li trascinerà fino all'estremo nord senza che questa venga mai placata.

Il minestrone è un road movie dove al posto del percorso di formazione dei protagonisti c'è la fame, pura e semplice, e tutti i tentativi frustrati di un gruppo di personaggi per metterla a tacere. Il film è divertente e si guarda con leggerezza nonostante la lunga durata, presenta inoltre un cast per quegli anni di tutto rispetto, oltre ai volti già noti grazie al cinema di Pasolini appartenenti a Franco Citti e Ninetto Davoli, c'è quel Benigni che ancora era un folletto anarchico della comicità, al tris d'assi si accompagna una schiera di comprimari di tutto rispetto tra i quali spicca la presenza sul finale di Giorgio Gaber, ennesimo affronto del destino alla scalcagnata combriccola, ma anche Daria Nicolodi da poco scomparsa, Pietro De Silva e Fabio Traversa. Sergio Citti ci mostra la miseria e lo squallore, anche tra le meravigliose colline toscane ci si imbatte in discariche, casolari abbandonati, depositi di pneumatici, nei confronti del cibo c'è quella voracità disturbante che può repellere lo spettatore abituato allo stomaco pieno, il gruppo squinternato acquisisce caratteristiche giullaresche man mano che si ingrossa andando a creare una piccola armata in marcia per conquistare non territori ma un pasto, caldo o freddo che sia. Dai protagonisti affiorano squarci di poesia popolare, filosofia delle borgate, il miraggio di una condizione migliore permane, permane e viene svilito da una realtà dove alla fine non si mangia e, a voler forzare un parallelismo con l'odierno, anche da una società dove non c'è (più) da "mangiare" per tutti. Opera meritoria, surreale, purtroppo sommersa e nuovamente visibile grazie a Fuori Orario, che sposta un po' più avanti nel tempo il discorso iniziato da Pasolini, offre opportunità di ripensare alle disparità ancora vive nella società moderna in relazione alle necessità primarie, lo fa permettendoci di poter ridere anche su quella stronza della fame!


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