Antonio Barezzi è stato il primo ad aver valorizzato il talento di Giuseppe Verdi ed è interessante che una rassegna musicale dedicata essenzialmente alla musica contemporanea, nella sua declinazione Pop e Rock soprattutto, prenda il nome da lui. Certo, siamo a Parma e c'è il Teatro Regio, che al grande compositore è da sempre legato; eppure, in un paese che concepisce la musica a compartimenti stagni e che mal sopporta le contaminazioni di generi e ambienti, una manifestazione del genere, giunta ormai alla tredicesima edizione, non può che fare piacere.
Aggiungiamo che la qualità dei nomi coinvolti è alta e che le tipologie di appuntamenti sono molteplici: pomeriggi gratuiti in cui artisti della scena italiana si raccontano a Federico Vacalebre de Il Mattino e suonano qualche pezzo in acustico; concerti nel Ridotto Stage del teatro; concerti nel Regio vero e proprio, il cui colpo d'occhio basterebbe da solo a garantire la buona riuscita di un live, indipendentemente dai nomi coinvolti; per finire, aftershow all'Auditorium Paganini, location esclusiva anche dell'intera giornata di domenica.
Quello che segue è il racconto del venerdì e del sabato, limitatamente alle cose che sono riuscito a vedere (comunque la maggior parte). Come sempre, leggete quel che vi interessa e saltate il resto. Oppure saltate tutto. Ma un salto a Parma il prossimo anno vi consiglierei proprio di farlo...
Il mio Barezzi inizia alle 16, nel Gran caffè del Teatro Regio, gremito di gente e reso più affollato dalla poco funzionale disposizione delle sedie. C’è in programma Dente, che si racconta in una bella intervista che prevede anche qualche domanda dal pubblico. In mezzo ci sono stati quattro anni di silenzio dopo un disco, “Canzoni per metà”, volutamente controcorrente in un momento in cui l'It Pop stava esplodendo (una mossa azzardata di cui oggi appare un po’ pentito, stando al modo in cui ha raccontato la cosa). Ora c’è un album in arrivo (uscirà nel 2020 ma ancora non si conosce la data) anticipato nelle scorse settimane da due singoli molto riusciti, che potrebbero anche traghettarlo nella contemporaneità, lasciando per sempre alle spalle la nomea del “cantautore Indie” di un tempo irrimediabilmente superato. “Ho voluto fare un disco che suonasse esattamente come nel 2020”, ha spiegato durante l'incontro. “In fin dei conti gli artisti che ho sempre amato, Battisti su tutti, non è che facessero album ispirati alla musica dei decenni precedenti!”. È una riflessione interessante, che meriterebbe di essere sviluppata dovutamente ma che nel frattempo dice molto della voglia che Giuseppe Peveri ha di mettersi in gioco. Simpatico e gioviale, per nulla spocchioso come da più parti viene dipinto (io stesso l'avevo intervistato all'epoca de “L'almanacco del giorno dopo” ed era stata una chiacchierata molto piacevole), si racconta con ironia e sincerità, e suona una manciata di pezzi al pianoforte, strumento con cui, a detta sua, ha poca confidenza ma che gli è servito per scrivere il nuovo disco.
Un bel momento, in attesa dei concerti di anteprima del tour, previsti a dicembre.
L’attesa per Vasco Brondi è frenetica, il concerto nel Ridotto Stage del Regio è andato sold out già da diverso tempo e sono in molti, fuori, che cercano un tagliando.
Comprensibile, in fondo: dopo il tour dello scorso anno, con cui ha messo fine al progetto de Le luci della centrale elettrica, questa si tratta della sua prima uscita pubblica e di sicuro in molti (sottoscritto compreso) si aspettavano il lancio di un nuovo progetto.
Niente di tutto questo: come spiegherà lui stesso al termine dell'esibizione, è appena tornato dall’India e ha dunque deciso di mettere in piedi una sorta di concerto reading dedicato a quel paese. Accompagnato dal fido Andrea Faccioli (oltre alla chitarra, shruti e percussioni varie, giusto per rimanere in tema India), legge brani di scrittori italiani che hanno raccontato quel paese in alcuni dei loro libri (da Pasolini a Flaiano, da Terzani a Manganelli) e li alterna ad episodi del suo repertorio (provenienti in grandissima parte dall'ultimo “Terra”) in qualche modo collegati al tema dell'India e della sua spiritualità.
È un'ora abbondante di grande impatto emotivo e di intensa suggestione. Le canzoni, in uno scarno arrangiamento acustico, con solo uno sporadico utilizzo della Loop Station, escono benissimo, nonostante l’ormai proverbiale scarsa abilità vocale dell'artista ferrarese. Fatti salvi questi limiti, diventa difficile non commuoversi con “Chakra” o “Coprifuoco”, mentre due efficaci riletture di “Magic Shop” di Battiato e di “Bye Bye Bombay” degli Afterhours (che a suo modo è un altro racconto di viaggio, visto che Manuel Agnelli l’ha scritta dopo essere stato in India con l'amico Emidio Clementi) arrivano inattese ad arricchire il tutto.
Momento di passaggio, in attesa di capire come vorrà continuare, questa uscita di Vasco Brondi ne certifica il passaggio definitivo da cantore disperato di “questi cazzo di anni zero” a cantautore maturo, che ha sviluppato una serie di riflessioni sulla contemporaneità, soprattutto nella sua dialettica tra dimensione materiale e spirituale, che non sono per nulla banali o qualunquiste.
Sugli Echo and the Bunnymen c’è da fare tutto un altro discorso. La band scozzese è tra le poche, di tutto il calderone generico del Post Punk, ad essere rimasta quasi ininterrottamente in attività, anche se l'ultimo “Meteorites” ha ormai cinque anni.
Ciononostante, quando suonano dal vivo (cosa che non hanno praticamente mai smesso di fare) la selezione delle canzoni in scaletta si ferma spesso e volentieri al
Va indubbiamente bene per la stragrande maggioranza del loro pubblico, che è invecchiata col loro, che non sembra conoscere ricambio generazione e che, salvo pochissime eccezioni, non prende neppure in considerazione tutto ciò che uscito dopo “Echo & the Bunnymen”. Per tutti gli altri, quelli che tentano di mantenersi aggiornati sui suoni della contemporaneità, sono semplicemente un gruppo del passato; peggio ancora, “Quelli che hanno scritto “The Killing Moon”.
Sorprende comunque vedere il Regio quasi del tutto gremito, per una band che dalle nostre parti è passata sempre parecchio e per di più due volte nell'ultimo anno e mezzo, a Torino e a Rimini. Non c’è un disco da promuovere (a meno di non voler considerare la recente pubblicazione integrale delle loro Peel Sessions), non c’è neppure un vero e proprio tour, solo qualche data sporadica e isolata.
Aprono i Fil Bo Riva, guidati dall'italiano Filippo Bonamici ma berlinesi a tutti gli effetti. Un disco all'attivo, “Beautiful Sadness”, uscito quest’anno, Alternative Folk dalle tinte scure e fortemente intimiste. Buona intensità di base ma arrangiamenti poco fantasiosi e lineari, fanno scorrere via il tutto in maniera piacevole ma senza particolari sussulti.
Ian Mc Culloch e Will Sergeant, unici due superstiti della formazione originale degli Echo and the Bunnymen, sono in splendida forma e con il contributo prezioso degli altri quattro (Stephen Brannan al basso, Nicholas Kilroe alla batteria, Jez Wing alle tastiere e Kelley Stoltz alla seconda chitarra) danno vita ad un’esibizione potente e credibile, con suoni che ricreano in maniera filologicamente accurata le atmosfere del periodo. Ottima tenuta vocale, efficaci fraseggi chitarristici, per un repertorio ovviamente telefonatissimo, che inanella una lunga serie di classici (facciamo che per una volta non scrivo quali sono, tanto li conoscete tutti), che poi è al 90% la stessa di ogni concerto.
La cornice del teatro valorizza ciò che accade sul palco ma smorza notevolmente la reazione del pubblico, con Ian che fa di tutto per riscaldare l'atmosfera, con risultati tuttavia poco soddisfacenti.
Uniche eccezioni alla lunga infilata di hit (menzione d'onore per una “Over the Wall” veramente incalzante e per una “Villars Terrace” che sempre rimarrà una delle cose più belle del Post Punk europeo), la nuova “The Sonnambulist”, uno degli inediti della raccolta ri registrata “The Stars, the Ocean & the Moon” e “Rust”, che è del 1999 e che probabilmente nessuno si aspettava davvero. Ovviamente non manca “The Killing Moon”, arrivata nel finale assieme a “The Cutter”, “Lips Like Sugar” e ovviamente “Ocean Rain”, che chiude dopo un'ora e mezza scarsa.
Un'esibizione di livello, sia per la qualità del repertorio (del resto proporre una scaletta così equivale a rischiare poco o nulla), sia per l’intensità e la qualità delle esecuzioni. Rimane la questione fondamentale: gli Echo and the Bunnymen, declinati in questo modo, hanno davvero senso di esistere? Credo che ognuno possa dare la risposta che preferisce.
La giornata successiva si apre, almeno per me, con Cristiano Godano che, sempre intervistato da Federico Vacalebre, presenta “Nuotando nell'aria”, il libro dove ha tentato di rievocare il mondo che sta dietro alle canzoni dei primi tre album dei suoi Marlene Kuntz. Spiace sentire per l'ennesima volta il solito atteggiamento recriminatorio del tipo “avremmo voluto diventare molto più famosi ma non siamo stati capiti” (che poi, caro Cristiano, una ragione ci sarà se tutti incensano solo e soltanto i vostri primi tre lavori. Voglio dire, sicuramente un bel po' di ideologica miopia da fan, ma non vi è mai venuto il sospetto che forse, gran parte del repertorio post “Ho ucciso paranoia” non sia particolarmente incisivo? Oppure se vi criticano è sempre colpa degli altri?) ma bisogna dire che il suo racconto è comunque molto godibile e anche ricco di spunti interessanti di discussione: da quando Paolo Conte gli ha suonato il pianoforte su “Musa”, alle considerazioni non banali sul mestiere di musicista nell'era dello streaming, l’impressione è di un reduce che prova caparbiamente a rimanere ancorato ad un brandello di realtà, in un mondo che sta irrimediabilmente franando. E non è colpa sua, ovviamente. Ci siamo tutti dentro ed ogni tanto viene effettivamente il dubbio che tutte le nostre azioni, tutto l'amore che mettiamo nel comprare un disco, nell'andare ad un concerto o nello scrivere una recensione siano solo un tentativo futile di arginare il declino.
Nel finale fa contenti anche quelli che erano venuti per la musica: imbraccia la chitarra ed esegue “Lieve”, “Ti giro intorno”, “Fantasmi”, la cover di Neil Young “The Needle and the Damage Done” e, ovviamente, “Nuotando nell'aria”.
A seguire Francesco Di Bella, ex 24 Grana, da tempo in giro con un progetto solista di grande valore. Ha parlato di Folk, di diavolo (figura a cui è dedicato il suo ultimo lavoro in studio), di cosa voglia dire cantare in napoletano e del suo amore per i Nine Inch Nails, di cui ha da poco coverizzato “Starfuckers, Inc.” per la compilation “A Fragile Tribute” curata da O'live. Nel finale, accompagnato dalla chitarra di Alfonso Bruno, esegue una manciata di canzoni riuscendo a far cantare e muovere il pubblico.
Scott Matthews è aperto e gioviale, con un'attitudine down to earth che lo mette subito in sintonia con il pubblico e contribuisce alla buona riuscita del concerto. Suona da solo, chitarra ora elettrica, ora acustica, con qualche inserto di armonica. Il suo repertorio intimo e malinconico, ottima penna ispirata al Folk tradizionale, con melodie dirette e una voce sia piena che in falsetto ad impreziosire il tutto, funziona alla grande nel contesto del Ridotto Stage, la cui sala decorata e affrescata entusiasma visibilmente anche lo stesso cantautore britannico. È un’esibizione molto colloquiale, con pause consistenti tra un brano e l'altro, durante le quali scherza col pubblico, accorda la chitarra e racconta aneddoti sulla nascita delle varie canzoni.
Solo due pezzi dall'ultimo “The Great Untold”, tra cui la title track dedicata al figlioletto nato da poco, e molti estratti dai primi lavori, dove spiccano le ultra collaudate “Passing Stranger”, “So Long My Moonlight”, “Elusive”, accanto alle sempre splendide “Virginia”, “Sunlight” e la conclusiva “Home & Dry”, arrivata come bis. Ha detto di avere un disco in uscita il prossimo anno e che probabilmente verrà nuovamente da noi. Inutile dire che lo aspettiamo a braccia aperte.
“Krieg und Frieden (Music for Theatre)” aveva probabilmente aperto la nuova vena compositiva di Sascha Ring, dopo i suoi esordi all'insegna della Techno berlinese, successivamente meglio articolati nella fruttuosa collaborazione coi Modeselektor e la conseguente nascita del collettivo Moderat.
“LP5” ha spinto ancora più in là l'asticella qualitativa, rispetto al già ottimo “Devil's Walk” e non ci sarà davvero da stupirsi se ce lo troveremo in pole position nelle principali classifiche di fine anno.
Il suo live parmense segna la sua terza venuta nella penisola dall'uscita del disco e io, che non era ancora riuscito a vederlo, mi basavo soprattutto sui feedback entusiasti di chi c’era stato. Diciamo che il risultato finale è andato oltre la mera possibilità dell'uso delle parole per descriverlo. Lo spettacolo messo in piedi dai cinque, che poi sono lo stesso insieme di collaboratori che si porta dietro da tempo, capitanato dal violoncellista e polistrumentista Philip Thimm, ha sostanzialmente rappresentato la fine di qualunque arbitraria distinzione si possa fare tra musica elettronica e musica tradizionale. “Se suoni la chitarra ottieni un risultato sonoro immediato - aveva dichiarato qualche mese fa - è come cantare ed è qualcosa che risulta molto fresco, se arrivi dalla prospettiva del fanatico del suono elettronico.” Un approdo tradizionale, dunque, per un musicista a tutto tondo, che per comporre usa con disinvoltura l'analogico e il digitale, che sul palco affianca violino, violoncello, tromba, chitarre elettriche, batterie, tastiere, Synth ed effetti vari, senza nessuna preoccupazione di fare distinguo, mescolando tutto in un unico fluire, con la sola preoccupazione di comunicare bellezza. Ne risulta un concerto difficile da descrivere, dove le canzoni di “LP5” vengono destrutturate e reinterpretate, in un'alternarsi costante di atmosfere e suggestioni, dalle malinconie notturne alle esplosioni elettroniche a cassa dritta. La concezione del live di Apparat è molto simile, per attitudine ed espressività a quella dei
Notwist (guarda caso, anche loro tedeschi) ma non mancano alcuni passaggi dove, l'utilizzo degli effetti sulla voce e i leggeri tappeti di Synth, lo rendono vicino all'ultimo Bon Iver. In ogni caso è un'esperienza incredibile, valorizzata ancora di più dal Light Design essenziale ma superbo e da una location che toglie il fiato innanzitutto ai cinque musicisti e ne amplifica decisamente le prestazioni (“Capita sempre - scherza Sascha più o meno a metà - che uno di noi abbia una serata sfortunata. Ad ogni concerto c’è un membro della band che suona male. Questa sera non è così, questa sera stiamo andando tutti alla grande!”).
Il Barezzi andrà avanti fino a domenica sera ma il mio per quest’anno è finito qui. E lasciatemi dire che non c’era modo migliore per finire. Tra i tre concerti più belli dell'anno, senza se e senza ma.
[Tutte le fotografie sono per gentile concessione del Barezzi Festival]