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Il Giunco Mormorante
Nina Berberova
2020  (Adelphi)
LIBRI E ALTRE STORIE
all THE BOOKSTORE
22/08/2022
Nina Berberova
Il Giunco Mormorante
Un libro consigliatissimo, di quelli che si divorano, che nutrono e che regalano momenti pregni di bellezza. Un libro che parla di disincanto e ci insegna che in alcuni casi è necessario perdere per poter (ri)trovare...

 

“Nella vita di ognuno esistono momenti – quando la porta sbattuta all’improvviso e senza alcun visibile motivo di colpo si riapre, quando lo spioncino chiuso un attimo fa viene di nuovo aperto, quando un brusco «no» che sembrava irrevocabile si muta in «forse» -, momenti in cui il mondo intorno a noi si trasfigura, e noi stessi ci riempiamo di speranza come di nuovo sangue.”

 

Nina Berberova (San Pietro Burgo, 8 agosto 1901 – Filadelfia, 26 settembre 1993) è considerata una delle esponenti femminili più importanti della letteratura russa. Oggi è conosciuta in tutto il mondo, ma per molto tempo, la sua vastissima produzione letteraria, composta da romanzi, racconti, biografie, saggi, autobiografie e poesie, è stata pressoché ignorata, non perché mancasse di qualità, tutt’altro, ma semplicemente perché è rimasta a lungo sconosciuta, ad appannaggio di pochi fortunati.

Socialmente altolocata (suo padre era un funzionario del Ministero delle finanze di nazionalità armena), nel 1922, temendo le persecuzioni del regime comunista nei confronti dei borghesi, considerati nemici del nuovo sistema politico, abbandona l’URSS e dopo un lungo errare, si trasferisce a Parigi, dove vivrà per circa 25 anni, e poi negli Stati uniti, dove, nel 1959, conseguirà la cittadinanza americana. Ci troviamo al cospetto di una donna intrigante, a tratti tormentata e malinconica, avvezza ad analisi profonde sulla propria natura, in conflitto con ogni forma di dualismo, divisione o sdoppiamento, infatti, nella sua autobiografia, “Il corsivo è mio”, scriveva: “Porto come un dono del destino quello della condizione per cui due sangui diversi, quello russo, settentrionale, e quello armeno, meridionale, si sono fusi in me condizionandomi sin dall’infanzia. Questa contrapposizione, come un’intera serie di contrapposizioni e persino di contrasti che io riconoscevo in me, smise a poco a poco di essere causa di conflitti: cominciai a compiacermi coscientemente di me stessa come di una «cucitura».”

Come in molte delle sue opere, anche ne “Il giunco mormorante”, racconto breve scritto nel 1958, sono presenti riferimenti al tema dell’esilio e soprattutto alla condizione emotiva degli esiliati russi: “quanta sofferenza, qui, e quanta ce ne sarà ancora, non solo sofferenza in genere, ma sofferenza russa, quella nel cui alveo anch’io oggi mi trovo – da Turgenev che soffriva in un appartamento di rue Douai, e Dostoevskij che pativa in un albergo di Boulevard Saint Michel […].” 


Il titolo dell’opera trae ispirazione da una manciata di versi di Fëdor Ivanovi? Tjut?ev contenuti nell’esergo del libro. Versi che, arrivati all’ultima pagina di questo piccolissimo gioiello, è bene ritornare a leggere, non solo perché sono splendidi, ma soprattutto perché è proprio tra quelle poche righe che si cela il vero senso della storia narrata dalla Berberova. Che è indubbiamente una storia d’amore, ma non solo, perché in alcuni momenti, quella storia d’amore si fa di lato, perde la sua centralità e si trasforma in un pretesto che consente alla scrittrice di portare all’attenzione del lettore quello che vuole essere il vero messaggio di questo racconto e cioè l’importanza di essere se stessi, di rispettarsi, di mantenere intatta la propria identità, i propri colori, la propria natura, e di porsi in una condizione di ascolto profondo rispetto a quelli che sono i propri bisogni, e di non avere il timore di protestare, se serve. Di far sentire sempre la propria voce, fosse anche l’unica dissonante: “Perché nel coro universale l’anima / non canta come il mare, e il giunco / pensante mormora, protesta?”.

I personaggi principali di questo racconto, che si sviluppa nell’arco di 79 pagine, sono la voce narrante, che è quella di una donna di cui non si conosce il nome, e il suo amante, Ejnar. Lei è russa, esule a Parigi e lui, invece, è svedese. È il 2 settembre del 1939, giorno in cui è scoppiata la Seconda guerra mondiale, e i due innamorati sono all’aeroporto, insieme, perché Ejnar sta lasciando Parigi per tornare a casa sua, nella fredda Stoccolma, mentre lei è lì semplicemente per accompagnarlo. È straordinaria l’intensità con cui la Berberova descrive i loro ultimi momenti trascorsi insieme. I dialoghi, la gestualità dei corpi, le mani che si toccano e si intrecciano, le promesse, i pensieri che si muovono veloci e caotici, i silenzi, le domande in cerca di risposte capaci di rassicurare… Quel tentativo, appena accennato, di leggerezza, di sorridere e di guardare al futuro con ottimismo e speranza, nonostante la disperazione e il peso sul cuore, non solo per il loro amore sospeso, ormai posto nelle mani del destino, ma anche per i giorni di incertezza, morte e distruzione che inevitabilmente arriveranno: “Ejnar! Addio! Sii felice sulla terra ferma, qui noi stiamo andando a fondo, Ejnar, andiamo a fondo, e annegheremo, e se pur sopravviveremo, non saremo più noi, non saremo più gli stessi…

I giorni passano e la protagonista tenta di conciliare, finché è possibile, la sua vita e le sue abitudini di sempre con gli effetti di una guerra che si fa sempre più dura. Dapprima tutto sembrava scorrere più o meno “normalmente”, ma poi, le rinunce e le privazioni diventano impossibili da schivare, nonostante la sua posizione sia, tutto sommato, privilegiata. Vive, “non si sa se a titolo di nipote, segretaria, o inquilina” nel “grande e silenzioso appartamento” di suo zio Dimitrj Georgevic, un noto studioso apprezzato e stimato in tutto il mondo. Figura di riferimento importantissima nella vita della protagonista, che, tra le altre cose, l’ha iniziata alla letteratura. Lei era ancora una bambina quando, durante un viaggio a Venezia, Dimitrj Georgevic si è messo a leggerle ad alta voce “Ruslan e Ljudmila” di Puškin.

La guerra, intanto, volge al termine. Ejnar le aveva scritto solo durante il primo anno, fino alla caduta di Parigi, accennando al fatto che forse sarebbe tornato in primavera, per lavoro, ma non accadde. Dopodiché, più nulla. E non aveva nemmeno risposto alle sue lettere, che le erano tornate indietro con su scritto “destinatario sconosciuto”, così, lei, non aveva potuto far altro che continuare a chiedersi se fosse ancora vivo, se un giorno lo avrebbe rivisto e se l’amava ancora…

Il tempo passa, scorre come un fiume in piena, e trascina via anche ciò che sembrava insradicabile. Anche ciò che sembrava destinato a durare per sempre, come il loro amore. Lei ed Ejnar si incontreranno nuovamente solo a distanza di sette anni, a Stoccolma, in modo del tutto casuale. Ma Ejner non è più il suo Ejner. Lei non ha mai smesso di pensare a lui, di custodirlo gelosamente all’interno della sua “no man’s land”, in quello spazio segreto di libertà assoluta che appartiene a ciascuno di noi, e di nutrire quell’amore a cui si era aggrappata in tutti quegli anni, mentre lui, invece, era altrove, immerso già da tempo nella sua nuova vita: “E tuttavia lo amavo, amavo soltanto lui, e anche se continuavo a ripetermi che non voleva più saperne di me, non lo amavo per questo di meno. E forse lo amavo ancora di più dopo l’incontro a Stoccolma, e tutta la mia vita era piena di un disperato amore per lui, un amore che mi impediva di costruire il mio destino e caricava i miei giorni e le mie notti di un pesante fardello di cui non potevo – e forse non volevo – disfarmi.”

Arrivati a questo punto, non voglio svelarvi nulla sugli sviluppi di questa storia e soprattutto sul suo epilogo, però, come scrivevo all’inizio di questa recensione, quella narrata ne “Il giunco mormorante” non è semplicemente una storia d’amore, ma è molto di più. In una manciata di pagine, la Berberova mette sul piatto molti temi, tra cui quello dell’amore per se stessi, inteso come rispetto per la propria persona e la propria identità, con accenni indiretti al narcisismo e alla manipolazione. E poi, quello importantissimo e centrale della “no man’s land”.

L’uso del linguaggio è semplice e lineare, ma allo stesso tempo profondo e universale. Un libro consigliatissimo, di quelli che si divorano, che nutrono e che regalano momenti pregni di bellezza. Un libro che parla di disincanto e ci insegna che in alcuni casi è necessario perdere per poter (ri)trovare: “Quando si chiude una porta o si apre uno spioncino ora non mi soffocano più lacrime di gratitudine, no! Non sfrutto ogni occasione e non mi inchino riconoscente a ogni permesso. Dopo quello che ho visto non voglio essere, neanche soltanto un po’, l’insignificante bestiola che viene mobilitata, addestrata, spedita da qualche parte, nutrita di gelati o affamata, punita, o premiata perché ha rigato dritto.”