Dalle grandi praterie annerite da immense mandrie di bisonti, agli smisurati ranch di proprietà di un pugno di allevatori che regnavano come monarchi assoluti su schiere di vaqueros, al paesaggio arido e desolato punteggiato dalle torri dei campi petroliferi, la storia del Texas occidentale è la storia di un susseguirsi di massacri, la storia di una terra strappata di mano più e più volte nel cors o delle generazioni. E inevitabilmente anche la storia dei McCullough, pionieri, allevatori e poi petrolieri, è una storia di massacri e rapine, a partire dal patriarca Eli, rapito dai Comanche in tenera età e tornato a vivere fra i bianchi alle soglie dell'età adulta, per diventare infine, sulla pelle dei messicani e grazie ai traffici illeciti fioriti nel caos della Guerra Civile, un ricchissimo patròn. Ma se Eli McCullough, pur sognando la wilderness perduta, non esita ad adattarsi ai tempi nuovi calpestando tutto ciò che ostacola la sua ascesa, suo figlio Peter sogna invece un futuro diverso, che non sia quello del petrolio che insozza la terra e spazza via i vecchi stili di vita, e non può che schierarsi con trepida passione dalla parte delle vittime. La storia, però, la fanno i vinci tori, ed ecco allora Jeanne, la pronipote di Eli, magnate dell'industria petrolifera in un mondo ormai irriconoscibile, in cui di bisonti e indiani non c'è più neanche l'ombra, e i messicani sono stati respinti al di là del Rio Grande...
La storia di una potente famiglia americana attraverso lo sguardo di tre protagonisti (e un deus ex machina) in tre epoche diverse: Eli, audace e anaffettivo, capostipite della famiglia Mc Cullough; Peter, sensibile e debole, travolto dagli avvenimenti e ripudiato da tutta la famiglia; e infine, Jeanne Ann, la potente e ricchissima matriarca a capo di un imponente impero economico. Quasi tre romanzi in uno, che si alternano tra loro, facendo viaggiare il lettore dall'Ottocento fino ai giorni nostri, e ritorno. La storia dei texani Mc Cullough non è però fine a se stessa, non si esaurisce nella saga, ma è presa invece a paradigma della Storia degli Stati Uniti (e, per esteso, dell'intera umanità): violenze, sopraffazioni, macelleria messicana (nel vero senso del termine), soprusi e nefandezze di ogni tipo sono l'ordinario in un mondo in cui la vita umana vale meno di zero. Quella di Meyer è infatti un'umanità senza alcuna etica che non sia quella della prevaricazione e del profitto, un'umanità che non trova spazio per sentimenti, gentilezza, pietà (in tal senso la figura di Peter è assai esplicativa), ma fonda le proprie ambizioni e la conseguente realizzazione delle stesse sul sangue altrui. Il Figlio è un racconto epico e avventuroso, che non fa sconti in quanto a crudezza di linguaggio e violenza, ma capace tuttavia di suggerirci a ogni pagina un pensiero, una considerazione, una riflessione articolata su cosa sono (e sono stati) gli Stati Uniti d’ America: una nazione immensa e frastornata dalle contraddizioni, che si è autolegittimata azzerando ogni ostacolo, facendo soccombere i più deboli, espropriando intere popolazioni dalle proprie terre e della propria cultura, facendo della forza bruta l'architrave della propria democrazia. Frutto di un lavoro durato cinque anni e di numerose stesure (pare che l'autore abbia voluto rimettere mano anche alla versione definitiva dell'opera già in possesso dell'editore), questo romanzo conferma Meyer come uno degli scrittori più originali e ispirati della sua generazione. La sua prosa potente e ruvida, ma al contempo assai avvolgente, attraversa, dritta come un fuso, un ipotetico crocevia fra le affabulazioni intellettuali di Franzen e la spigolosa essenzialità di McCarthy. Capolavoro.