Flow my tears (1)
Un ponte tra Cinema e Letteratura.
“…e non si seppe più nulla del cavallo”
Didascalia introduttiva de: “Il cavallo di Torino” - regia di Béla Tarr
Un diverso punto di vista per affrontare un episodio noto, l’esplosione della follia in Friedrich Nietzsche a Torino, dopo aver visto percuotere un cavallo; volendo fermare la violenza del vetturino sull’animale restio a muoversi, gli si gettò al collo chiedendo all’uomo di smettere. Con l’iniziale l’inquadratura dal basso della frenetica corsa dell’animale, senza più conduttore, e con l’innesto di una musica grave, si ha la netta sensazione che l’umanità sia scomparsa. E non si seppe più nulla di nessuno. Capita, a volte di incappare in figure di registi che testimonino un’urgenza, una ricerca interiore accompagnata da una forte dose di radicalità. La stessa che ha portato Béla Tarr a comunicare come questo fosse il suo ultimo film. Nella speranza che ci ripensi, bisogna riconoscere che non poteva essere altrimenti: cos’altro dire, dopo che il mondo si è spento (letteralmente), dopo che il buio ha avvolto l’esistenza dei due protagonisti del film, padre e figlia che ogni giorno conducono una vita in povertà, ripetendo gli stessi gesti, condannati a un eterno ritorno dell’identico? Le inquadrature sono lente, il bianco e nero sembra essere orientato sempre più verso quest’ultimo colore, grazie all’intenso lavoro del direttore della fotografia che vale il detto per cui ogni tecnica rimandi a una metafisica. Nessuno spazio, però, è lasciato a una dimensione superiore a cui affidare un po’ di speranza. Tutto è ricondotto alla terra, come da richiamo di Nietzsche nei suoi scritti. Rappresentativa risulta, in questo senso, la scena in cui padre e figlia mangiano l’uno di fronte all’altra in un décor che ricorda il celebre quadro di Van Gogh con i mangiatori di patate; non si dicono nulla, spezzano e si rubano il pane come due animali, mentre fuori il vento si muove a desertificare tutto. La dignità che aleggiava nel dipinto qui è svanita. Il regista ha raggiunto il suo scopo: rappresentare la pesantezza dell’esistenza, fino a togliere il fiato, anzi riducendo al silenzio com’è capitato a me e ai pochi spettatori al termine della proiezione presso la Cineteca di Bologna, qualche anno fa, all’interno di una retrospettiva dedicata al regista.
”Si deve essere pronti ad ardere nella propria fiamma: com’è possibile rinnovarsi senza prima essere divenuti cenere?”, diceva il filosofo in uno dei passi del suo celebre Zarathustra. “La grandezza dell’uomo è di essere un ponte, e non uno scopo: nell’uomo si può amare il fatto che egli sia una transizione e un tramonto. Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, poiché essi sono una transizione”.
Questo ponte, questa transizione è presente anche in un’opera letteraria dal titolo impensabile per essere incentrata su un uomo che teorizzava la volontà di potenza: “Le lacrime di Nietzsche”, dello psichiatra Irvin D. Yalom. Non sapremo nulla del cavallo, ma non possiamo nemmeno immaginare il profeta dell’oltre-uomo chino su se stesso a piangere. Lo fa un dottore dell’anima (se mi si passa il termine) ricorrendo a una perfetta fusione tra finzione e fedeltà nel riportare teorie consegnate alla storia del pensiero. In questo libro l’autore immagina l’incontro tra il filosofo e Joseph Breuer (accompagnato da un giovane Sigmund Freud non ancora famoso) e fa accadere l’impensabile, mediante un corpo a corpo verbale tra i due, che li porterà a sviluppare un’inevitabile empatia. Il tempo trascorso insieme, le mille parole che si scambieranno fino ad arrivare al punto di rottura, ci conducono agli antipodi del cinema di Bela Tarr, lontani da quel silenzio ostinato tra due persone, da quel vento impetuoso che spira al di fuori dell’abitazione, perno centrale della pellicola. Qui abbiamo una persona all’apice della carriera (Breuer), rassicurata dalla fama accademica, dalla famiglia, da una moglie che lo adora, senza che tutto questo gli impedisca di provare pulsioni erotiche verso la sua paziente, malata d’isteria, quella Anna O. che poi sarà curata anche da Freud, amico e consigliere del medico. Dall’altra parte abbiamo, un uomo in preda ad emicranie che gli procurano problemi alla vista, ma soprattutto immerso in una profonda disperazione. L’anello di congiunzione che favorisce l’incontro tra i due è Lou Salomé, donna di cui Nietzsche si era innamorato e che lo aveva rifiutato, preoccupata che l’amico filosofo stesse meditando il suicidio. Affascinato dalla donna, il medico accetta la sua richiesta d’iniziare questa partita a scacchi, che lungo il libro procede con mosse studiatamente lente, come le inquadrature di Béla Tarr. Puramente “cinematografici” sono gli inserti in cui l’autore ci mostra gli appunti in cui i due contendenti annotano ciò che pensano l’uno dell’altro e come pensano di smascherare le vicendevoli pretese di vittoria. Abbiamo libero accesso a ciò che raramente possiamo conoscere: i pensieri di una persona, la sua interiorità. Ciascuno dei due è convinto di portare a termine con successo il proprio percorso, di avere la mossa giusta da sfoderare nel momento di debolezza dell’altro. Per far questo dovranno entrambi mettersi a nudo, raccontare di sé, delle pulsioni segrete, paure, episodi di vita mai resi pubblici, senza accorgersi che si stanno curando vicendevolmente e che, forse, stanno diventando amici. Quando il nocciolo è scoperto allora il rischio della deflagrazione e della contaminazione è altissimo: coprirlo in qualche modo, seguendo la metafora nucleare, o lasciar scorrere le lacrime? Non è necessario padroneggiare concetti filosofici o conoscere le teorie psicanalitiche per leggere questo libro; in realtà, il tono, la scrittura sono umani, troppo umani (sempre per citare un’opera del filosofo) per non lasciarsi avvincere da una sfida dove emerge la consapevolezza che nessuno si salva da solo (2) e che la vita è fatta di rarissimi momenti d’intensità e di innumerevoli intervalli. Basta non fermarsi a questi ultimi, come ammoniva Nietzsche, e cercare di riconoscere gli altri. Prima che scenda il tramonto.
(1) “Flow my tears”, è una composizione per liuto e voce creata da John Dowland (XVI secolo), cantata anche da musicisti come Sting e ripresa da Philip K. Dick nel titolo di un suo romanzo: “Scorrete lacrime, disse il poliziotto”.
(2) Le teorie di Friedrich Nietzsche, per quanto potenti e scardinanti, non ebbero nella breve distanza un’eco e una continuità tale da sopravvivergli a lungo. Ci volle la mano tesa, molti anni dopo, da un “amico”, un altro appartenente della linea tedesca, il filosofo Martin Heidegger, per ridar luce alla grandezza e alla portata del suo pensiero. Un po’ come fece François Truffaut con un Alfred Hitchcock obliato dalla critica, sempre per restare in ambito cinematografico.
Post Scriptum: “La linea tedesca” è il titolo di un dipinto di Anselm Kiefer, presente in modo permanente nello spazio PirelliHangarBicocca di Milano, dove sono allestiti “I sette palazzi celesti” creati dallo stesso autore. Nel dipinto un uomo di spalle guarda l’arcobaleno lungo il quale sono scritti i nomi di filosofi tedeschi.