“Una ragazza diventa donna davanti al coltello. Deve imparare a conoscerne la lama. La ferita. A sangui- nare. A portare la cicatrice senza smettere, in qualche modo, di essere bella e con le ginocchia abbastanza forti da poter strofinare il pavimento della cucina ogni sabato. Sarai perduta o trovata. Due verità che pos- sono accapigliarsi per l’eternità. Ma cos’è l’eternità se non un’intricata bestemmia? Un cerchio incrinato, lo spazio di un cielo acceso di fucsia. Se la portassimo giù sulla terra, l’eternità sarebbe un susseguirsi di vette lontane. Una terra nell’Ohio, dove tutti i serpenti nascosti nell’erba saprebbero in che modo gli angeli hanno perduto le loro ali. Accenderei una candela ora, ma finirei per dimenticare poi di spegnerla, e la mia casa andrebbe in cenere. Un mucchietto di cenere tanto piccolo da farmi dubitare di averne mai posseduta una. Una casa si costruisce dal principio e il mio principio sono Landon e Alka, mio padre e mia madre…”
Con il suo straordinario e fulminante esordio, L’estate Che Sciolse Ogni Cosa, Tiffany McDaniel ha ottenuto, grazie anche al passaparola, meritati plausi sia da parte della critica e che del pubblico. Un successo crescente, che ha portato la giovane narratrice originaria dell’Ohio a essere considerata una delle figure più interessanti della letteratura statunitense contemporanea. E a ragione, anche se cimentarsi nella lettura di un suo romanzo, però, non è operazione semplice. Non tanto per la prosa, che è agile e scorrevole, quanto semmai perché bisogna accettare di stare al suo gioco e alle regole che questo gioco comporta.
La McDaniel, infatti, rapisce letteralmente il lettore e lo trasporta in un mondo parallelo, seducendolo con una scrittura sempre in bilico fra reale e surreale, che gioca e si diverte con gli eccessi, creando personaggi immaginifici eppure incredibilmente veri, quasi palpabili fisicamente, commuovendo alle lacrime con stille di luminosa umanità o terrorizzando con le storie più crude e violente, declinate però con un gusto per l’immagine poetica che ha pochi eguali.
Il Caos Da Cui Veniamo catapulta il lettore a Breathed, Ohio, nel ventennio che va dagli anni ’50 agli anni ’70 del novecento; il dato storico e l’ambientazione realistica (la vicenda è ispirata alla vita della madre della scrittrice), tuttavia, restano in una dimensione sospesa e rarefatta, fluttuanti in un mondo rurale che sembra senza tempo.
Bitty, la voce narrante, racconta la storia della propria famiglia, i Lazarus, padre indiano, madre bianca e sei figli, tutti diversissimi fra loro. Una famiglia disfunzionale, come tante, peggio di tante, una famiglia che rappresenta il Caos su un piano di lettura immediato: il padre, figura amorevole, capace di mistificare la realtà con la forza della propria fantasia, la madre, vittima di uno stupro incestuoso da parte del proprio genitore, e in balia di fantasmi e folli raptus di violenza, e sei ragazzini, ognuno con la propria peculiarità, le proprie passioni e, soprattutto, il proprio tormento interiore.
Una casa diroccata e risistemata con cura amerovole delinea i confini di un territorio in cui l’amore, la complicità e la delicatezza dovranno fare i conti con tradimenti, rancori, brutali violenze, incesti e omicidi. Questa è la famiglia dei Lazarus, un groviglio di contraddizioni, un campo di battaglia in cui non si fanno prigionieri, il piccolo, tumultuoso Caos generato dal Caos supremo, quello di un Dio cecchino, lontano dalle vicende umane, che spara a casaccio, solo per il divertimento di farlo, ma al contempo artefice di tutte le bellezze del mondo, di quella natura rigogliosa che abbraccia la storia in una stretta che scioglie ogni cosa, lasciando che ogni tragedia evapori nella dimensione onirica del sogno.
E’ l’eterna convivenza fra il bene e il male, una lotta che genera tanta bellezza e tanto dolore: non esiste né il bene assoluto (Trustin) né il male assoluto (Leland), esistono solo gli uomini che contengono entrambi. Da un grande male, quindi, può nascere il bene e viceversa. Non c’è però, nella narrazione della McDaniel alcun intento consolatorio o assolutorio, ma solo una tragica constatazione di ciò che è la vita. Il Caos fa rumore, il Caos genera scontro, il Caos domina incontrastato. E’ questo il motivo per cui la scrittrice americana non si limita a raccontare, ma spinge sull’eccesso, calca la mano sui suoi personaggi e sulle sue storie: la narrazione deve destare dal torpore e deve, soprattutto, far rumore, esattamente come gli spari che riecheggiano nelle notti di Breathed. In questa vita, in cui tutto è precario e caduco, l’unica speranza e barlume di salvezza è rappresentato dall’arte, le cui disparate forme, musica, scrittura, pittura, sono rappresentate dalle pulsioni positive di alcuni personaggi del racconto.
Il Caos Da Cui Veniamo, però, non esaurisce qui il proprio spessore ma è anche un appassionante e appassionato romanzo di formazione, che riesce a toccare e sviscerare, con ardore ed empatia femminista, la condizione della donna di quegli anni (gli stereotipi, le vessazioni, la discriminazione) che, fatte le dovute proporzioni, non si discosta molto da quella odierna.
Un romanzo potente e lirico, una saga familiare che tocca le coscienze con il vivido colore del sangue e la forza evocativa di una storia al limite, che lascia il lettore senza fiato fino all’ultima pagina.