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REVIEWSLE RECENSIONI
11/01/2021
Paul McCartney
III
Un disco scarno e dalla dimensione artigianale, in cui Macca trova l'essenza del proprio songwriting in un filotto di canzoni senza sbavature.

La maledetta pandemia di Covid 19 ci ha privati del grande piacere di poter ascoltare la musica dal vivo, di stare sotto il palco a poter vivere l’emozione di assistere in prima persona un concerto dei nostri beniamini. Per un po', durante il lockdown, anche la musica in studio ha subito una pesante flessione, album annunciati e rimandati, album che non hanno mai visto la luce, album pubblicati solo in digitale con l’uscita fisica procrastinata in un futuro, si spera, meno funesto. L’idea stessa del songwriting è stata riconsiderata, trovando una veste più scarsa, in dischi concepiti e suonati in solitaria dentro le pareti di casa, o più elaborata, in canzoni costrette a girare per il web, affinchè ogni musicista coinvolto potesse suonare da remoto le proprie parti strumentali o vocali. Alla fine, non è andata tanto male, e il 2020, nonostante la tragedia che si consumava tutto intorno a noi, ci ha regalato molti dischi bellissimi.

Ultimo, ma solo in ordine di tempo, è questo McCartney III, seguito di due album con lo stesso titolo, pubblicati rispettivamente nel 1970 e nel 1980, composto e suonato interamente da Macca durante la clausura del lockdown. Un disco che, come spiegato poco sopra, risente inevitabilmente di un modo di verso di fare musica e risulta così più scarno e ruspante del precedente e faraonico, mi si passi il gioco di parole, Egyptian Station. Tuttavia, dal momento che non siamo al cospetto di uno qualsiasi, ma di un musicista che ha inciso profondamente sulla storia della musica, III non risente assolutamente della pochezza di mezzi con cui è stato registrato, né tanto meno, riverbera le afflizioni dell’infausto periodo storico. L’impressione, infatti, è che Paul McCartney si sia divertito moltissimo a concepirlo e suonarlo, che avesse in tasca tante idee e intuizioni da mettere al servizio della propria musica e che si sia trovato a proprio agio in una dimensione più spartana e meno fastosa, in cui ritrovare l’essenza della propria scrittura, che talvolta si era persa in orpelli e paludamenti di fastidiosa ridondanza.

Nonostante il lavoro in solitaria, o forse proprio per questo, il disco fila meravigliosamente dalla prima all’ultima canzone; non è però, un disco immediato, ci vuole più di un ascolto per entrare nel mood di undici composizioni che spaziano per generi, abbracciano qualche tentativo di sperimentazione e si tengono alla larga dall’approccio mainstream e sovra esposto del predecessore.

L’iniziale, e quasi strumentale, Long Tailed Winter Bird creata intorno a un favoloso giro di chitarra è un colpo da fuoriclasse e testimonia su come Macca abbia proceduto alla lavorazione, partendo da un’idea brillante da cui iniziare ar costruire il resto. L’ossatura e poi la polpa. La successiva Find My Way è il brano più pop del disco, melodia di facile presa e un testo che, per converso, riflette sul turbamento figlio dei giorni del lockdown. I primi due assaggi di una scaletta che spazia fra la melodia pianistica introversa di Women And Wives dai cupi echi alla Nick Cave, al rock blues grezzo e verace di Lavatory Lil, dall’acustica e melodica The Kiss Of Venus, la più maccartniana del lotto insieme alla conclusiva Winter Bird-When Winter Comes.

Tutte gran belle canzoni, superate ai punti, però, dall’inaspettata Deep Deep Feeling, lungo e inquietante percorso tra blues, gospel e atmosfere cinematiche, e l’essenzialità francescana di Deep Down, riuscito patchwork tra soul ed elettronica, equilibrio perfetto fra modernità e vintage.

Alla soglia degli ottant’anni, Paul McCartney continua a pensare, scrivere e suonare grande musica, con la brillantezza di un giovane artista e l’esperienza di un veterano, capace di trovarsi a propria agio anche in questa dimensione artigianale. Suono, canzoni, emozioni: tutto è perfetto in McCartney III, a dimostrazione, se mai qualcuno se ne fosse dimenticato, che ci troviamo di fronte a un artista che ha segnato indelebilmente la storia, ma che ha sempre avuto la forza di non sostare nel passato leggendario, ma di rinnovarsi e guardare al futuro. Un Fab Four, insomma, è come un diamante, dura per sempre.


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