Nati a Firenze nel 2017 da un’idea del batterista Matteo Panichi e dal chitarrista Marco Torri, i Damn Freaks tornano sulle scene con il loro terzo album in studio, intitolato semplicemente III. Un disco, questo, segnato da importanti cambi di line up, visto l’abbandono del frontman Jacopo Meille (Tygers Of Pan Tang) e del citato co-fondatore Marco Torri. Uno stravolgimento che, tuttavia, non ha minimamente intaccato il livello qualitativo del progetto, dal momento che in formazione sono subentrati altri due straordinari musicisti, il cantante Giulio Garghentini e il chitarrista Alex De Rosso.
Il risultato è un disco che non fa rimpiangere in alcun modo i suoi predecessori, che è addirittura migliore in sede di produzione (Alex De Rosso) e che inanella un filotto di canzoni ispiratissime, fresche, potenti, melodicamente intriganti. Il territorio di caccia è sempre lo stesso, un hard rock melodico che guarda agli anni ’70 e ’80, e le fonti d’ispirazione sono facilmente riconducibili a band simbolo di quel periodo aureo come Dokken, Bon Jovi, Toto, Def Leppard, White Lion, Tesla, etc, tutte, però, rielaborate con gusto personale e grande consapevolezza.
Un album evidentemente derivativo, visti i riferimenti poc’anzi citati, ma che assume connotati distintivi grazie a un suono e a una produzione di livello internazionale, a un songwriting scintillante, e a una band solida, affiatata, spavalda, che insuffla decibel e dosi di energia, sui quali la grande voce di Garghentini fa letteralmente quello che vuole, per estensione e versatilità.
Dieci canzoni per quaranta minuti di musica che diventano contagiosi fin dal primo ascolto. Tutto, infatti, funziona a meraviglia, a partire dall’uno-due da ko delle iniziali "The Land Of Nowhere" e "Where Is Love?", due brani hard rock diretti e senza fronzoli, in perfetto bilanciamento fra muscoli e melodia, riff spacca ossa, assoli adrenalinici e ritornelli da mandare a memoria. Una vera goduria per chi non vede l’ora di misurarsi con la propria air guitar o di mettere a dura prova la cervicale con una sessione di headbanging.
Una partenza che dà immediatamente la misura della caratura della band, ma che non esaurisce certo l’ampio spettro espressivo di un suono capace di emozionanti sali scendi (la splendida "My Resurrection"), di irresistibili ganci radiofonici (il ritornello acchiappone di "You Ain’t Around"), di sterzate verso atmosfere umbratili ("My Time Is Gone" e "Damn Burning Mercy") e di aperture melodiche solari che si fanno spazio fra il graffio rapido e letale delle chitarre (la conclusiva "Walking The Wire").
III mette in scena il talento di una band che, nonostante le defezioni importanti, ha trovato immediatamente una nuova quadra e la forza per fare un ulteriore passo in avanti nel rifinire il proprio suono. Un approccio quasi in presa diretta, ricco ma privo di fastidiosi orpelli, e capace soprattutto di conquistare diversi palati, tanto quelli che amano gli assalti frontali sia quelli che preferiscono farsi sedurre dal piacere della melodia. Tra i migliori dischi rock italiani dell’anno.