Ci sono due riflessioni di partenza che il quarto capitolo del progetto Bon Iver potrebbe suscitare. La prima è che, con l’avvento prima del file sharing illegale e in seguito delle piattaforme streaming, la data di uscita di un disco è divenuta sempre più opinabile. “i, i” era schedulato per il 30 di agosto ma, con mossa improvvisa e decisamente inaspettata, Justin Vernon ne ha reso pubblico l’intero contenuto su Spotify con almeno venti giorni di anticipo. Lasciando noi “giornalisti”, che ci crogiolavamo beatamente con il tanto tempo a disposizione per farci un’idea chiara prima di buttare giù qualcosa, in stato confusionale e (almeno nel mio caso) anche un po’ piccati, perché si sarebbe voluto godere dell’esclusiva del possesso ancora per un po’. Pensatela come volete ma ormai il supporto fisico, almeno dal punto di vista della fruizione immediata del prodotto, ha fatto il suo tempo; ancora più di prima, l’artista è padrone della sua arte e decide come e quando condividerla.
La seconda questione è che sarebbe finalmente ora di mettere a tacere tutti quei discorsi per cui: “La magia del disco d’esordio, la capanna nei boschi, il cuore spezzato, l’ha registrato da solo, e vuoi mettere un pezzo come “Skinny Love”, e non è più come prima...” e altre stronzate del genere.
Sembra che non riusciremo mai più a liberarci del “mito delle origini”: basta un primo disco fortunato, artisticamente e commercialmente, ed ecco che ne rimani prigioniero e non ne esci più.
E invece, senza nulla togliere alla bontà di “For Emma”, occorre dire che tutto quel che è venuto dopo lo ha surclassato in ogni aspetto. Semplicemente, il problema è uno: se quello era un lavoro facilmente inquadrabile e piuttosto lineare nello svolgimento, nei successivi si è manifestata tutta la voglia di sperimentare, tutto l’eclettismo dell’artista del Wisconsin, e le cose si sono parecchio complicate. “For Emma… Forever Ago” era un ottimo disco di Alt Folk, gli altri tre sono il frutto autentico del talento di un artista fuori dal comune.
Per questo disco Vernon ha fatto le cose un po’ diversamente, quasi a marcare la distanza dall’immagine dell’artista solitario che realizza musica aiutato solo ed esclusivamente dalle sue capacità. Si è rifugiato nel Sonic Ranch di El Paso, Texas, circondato dai suoi musicisti di sempre (Sean Carey e Matt McCaughan alla batteria e percussioni, Mike Lewis al sassofono, Andrew Fitzaptrick alla chitarra, più la nuova entrata Jenn Wasner, proveniente dai Wye Oak) e da un nutrito gruppo di produttori, tra cui Chris Messina, BJ Burton, Brad Cook, Rob Moose ed Andrew Sarlo. Qui ha lavorato assiduamente a tutta una serie di nuove idee, alcune delle quali aveva in giro da anni, e coadiuvato da questo team numeroso ha dato forma al tutto, coinvolgendo i compagni d’avventura anche nel processo stesso del songwriting (l’iniziale “iMi” è stata per esempio composta assieme a Brad Cook, mentre “U (Man Like)” vanta la preziosa collaborazione di Bruce Hornsby, il cui nome non ha certo bisogno di essere presentato.
Tutto questo per ribadire un messaggio semplice: Bon Iver, soprattutto in questa fase storica, esiste perché esiste un collettivo di musicisti che ne supporta l’azione, aiutandolo a canalizzare gli spunti iniziali e ad indirizzarne la creatività in un percorso concreto e definito. Che poi è anche quello che si è sempre visto dal vivo, come l’ultimo, bellissimo concerto a Villafranca di Verona ha del resto ampiamente dimostrato.
Andando poi più nello specifico di questo “i, i”, appare chiara la volontà di liberarsi almeno in parte delle sperimentazioni e dell’astrattismo figlio di un certo lavoro di cut and paste che avevano animato “22, A Million”, il disco che, direi piuttosto a ragione, aveva spiazzato non poco critica e fan ai tempi della sua uscita, ormai quasi tre anni fa.
È cambiata anche la cornice del vissuto personale: allora c’era l’ansia, gli attacchi di panico, il disorientamento culminato in un infelice soggiorno in Grecia, che avrebbe dovuto essere il punto di partenza per una ritrovata creatività e serenità personale, e che lo ha invece lasciato ancora più vittima delle sue paure. A partire da quel tormentato stato psicofisico, però, era nato un album mastodontico, che tutt’oggi suona per lunghi tratti incomprensibile ma che non smette di rivelare la sua grandezza. Un disco che, almeno per chi scrive, rimane l’apice indiscusso della sua produzione.
Qui siamo su un altro terreno: c’è una serenità ritrovata, un nuovo sguardo positivo sull’esistenza, nonostante temi delicati come l’America di Trump, il cambiamento climatico o i flussi migratori dal Messico (amplificati, questi ultimi, dal fatto di registrare così vicino al confine) appaiano diverse volte nelle nuove canzoni.
L’idea comunque è chiara: tornare ad una più lineare forma canzone, puntando tutto sulle melodie e sulla ricchezza degli arrangiamenti; allo stesso tempo, però, non rinunciare all’elettronica, all’incollare uno sull’altro vari frammenti sonori, a sperimentare con voci ed effetti vari.
Ne risulta un disco a due facce: da un lato gli episodi più astrusi e spigolosi, che sembrano legati ad una sorta di stream of consciousness dell’ispirazione, dove c’è una cosa diversa ogni due secondi e apparentemente manca un centro a cui appoggiarsi (“iMi” ne è l’esempio migliore ma anche “Holyfields” e “Sh’Diah” vanno in questo senso). Dall’altro, momenti in cui la grandezza di Vernon come autore di canzoni emerge prepotentemente, regalandoci prove di altissima intensità emotiva che abbandonano il Folk degli esordi per esplorare in pieno quelle sonorità Soul e Gospel delle quali si è innamorato subito dopo il primo album, aiutato anche dalle collaborazioni con artisti come James Blake e Kanye West. A questa seconda schiera appartengono senza dubbio i primi due singoli usciti, “Hey Ma” e “U (Man Like)” che basterebbero da sole a far scomparire “Skinny Love” senza troppi complimenti; ma ci sono anche “We”, “Naeem”, “Faith” o la strepitosa “Salem”, ballata dall’incedere corale assolutamente emozionante nella sua dinamica.
Il resto sta più o meno nel mezzo, tra incredibili intuizioni e momenti un po’ ripetitivi, che però non offuscano la grandezza del quadro d’insieme.
Se dovessimo dunque definirlo in due parole, si potrebbe dire che questo “i, i” risulta da un’efficace sintesi di “Bon Iver” e “22, A Million”, senza però risultare ripetitivo o già sentito, se non in pochissimi momenti.
Non so se questo possa essere l’unico disco che Vernon avrebbe potuto fare col suo monicker più celebre (per certi versi io avrei preferito una continuazione dell’esplorazione a senso unico) ma di sicuro è un lavoro che riflette il periodo che sta vivendo, frutto di un lavoro di squadra di cui non conosciamo i retroscena ma di cui, ascoltando il prodotto finito, si intuisce l’efficacia (arrangiamenti e produzione sono decisamente di alto livello).
E poi ci sono le canzoni. Non tutte, magari, ma gli episodi menzionati sopra valgono da soli l’acquisto. Difficile capire cosa succederà da qui in avanti ma di sicuro una cosa è chiara: i tempi di “For Emma” sono (per fortuna) finiti da un pezzo.