Cerca

logo
REVIEWSLE RECENSIONI
13/04/2022
Ignite
Ignite
Dopo quasi 30 anni di carriera e un cantante storico che ha lasciato la band, quante possibilità ci sono di trovare un nuovo frontman all’altezza e di fare pure un bell’album? Contro ogni previsione gli Ignite hanno fatto jackpot, trovando in Eli Santana il futuro del gruppo e in “Ignite” uno dei migliori dischi che avrebbero mai potuto realizzare.

Quando una band decide di pubblicare un album omonimo è sempre segno di grandi cambiamenti o grandi riaffermazioni. In questo caso, per gli Ignite, il passo è grande su entrambi i fronti. Dopo quasi 30 anni di carriera nel punk hardcore della Orange Country californiana con un nome riconosciuto da entrambi i lati dell’atlantico, quando nel 2020 lo storico frontman Zoli Téglás ha annunciato che avrebbe lasciato la band, il futuro della band sembrava quasi segnato.

Con solo il bassista Brett Rasmussen a rappresentare i fondatori originari (per quanto Craig Anderson sia nella band come batterista dal 1997 e i chitarristi Kevin Kilkenny e Nik Hill, nonostante qualche tira e molla, ne facciano parte dal 2000) e una produttività che non è mai stata altissima (6 album in circa 25 anni), il gruppo avrebbe anche potuto legittimamente sciogliersi. La scelta, però, è stata quella – coraggiosa – di iniziare la ricerca di una nuova voce, affrontando così anche i rischi di ciò che questo poteva comportare, visto che la gamma vocale di Zoli, spesso molto più vicina a quella di Bruce Dickinson degli Iron Maiden che a quella di un solito cantante hardcore o punk, poteva non essere semplice da sostituire. Per una band così longeva, infatti, la scommessa non era solamente trovare una voce che potesse identificare il futuro che ci si immagina, ma anche trovarne una in grado di reggere il confronto con tutta la produzione precedente che, inevitabilmente, verrebbe suonata ad ogni live sotto l’orecchio attento dei fan.

La ricerca, probabilmente, è avvenuta nel segno di una stella decisamente buona, perché il frontman è stato trovato nella (a prima vista improbabile) figura di Eli Santana, chitarrista metal di Holy Grail, Incite e Huntress. Santana, che nelle precedenti esperienze era anche una seconda voce, ha dimostrato delle capacità vocali non solo notevoli in quanto a varietà e possibilità, ma anche perfettamente calzanti per quanto concerne genere e contesto. Rispetto a Zoli vi è forse un’ottava di meno in quanto ad acuti, questo sì, ma diciamocelo, si tratta pur sempre di punk hardcore, perché dovremmo sentirne la mancanza? Eli Santana, come dimostrato sin dal primo EP di due canzoni (una nuova, “Anti-Complicity Anthem”, e una storica, “Turn XXI”, ri-registrazione della canzone di debutto della band del 1994), pubblicato nel settembre 2021 per far conoscere la nuova formazione, riesce non solo a infondere nuova energia nel sound attuale degli Ignite, portando in dote anche tutta una nuova gamma di intonazioni comprese quelle urlate, ma anche ad essere perfettamente credibile nell’interpretare i pezzi storici.

Ignite, prodotto sotto la sapiente mano di Cameron Webb (Pennywise, Bayside, Lagwagon, Strung Out, Alkaline Trio, Motörhead) comprende 10 canzoni in soli 31 minuti e, nella sua omonimia, rappresenta a tutti gli effetti l’inizio di un nuovo corso: la riaffermazione del sound, ancora perfettamente in linea con quello dei dischi precedenti, e dei temi nei testi, ma anche una realizzazione con un fuoco che ritrova la band decisamente rinnovata.

Si inizia con la bellissima “Anti-Complicity Anthem” per poi proseguire con il secondo singolo, “The River”, in cui si denuncia la situazione dei migranti al confine meridionale degli Stati Uniti («Quanti corpi nel fiume / Quanti bambini le vostre leggi vi permetteranno di ignorare?»). Il terzo singolo “This Day” presenta dei riff e un’intonazione vocale iniziali incredibilmente alla Turnstile, tanto da sembrare quasi tratti dal recente Glow, mentre con le successive il gioco delle somiglianze oscilla divertito tra quelle che sono le tipiche sonorità degli Ignite a riff, ritornelli o scelte vocali che possono richiamare alla mente Pennywise, Raise Against, Millencolin e quant’altro. Con “On The Ropes”, che solo apparentemente inizia con dei toni più scuri, entro i primi trenta secondi scatena tutto il suo potenziale punk-hardcore, regalando sia le classiche gang-vocals che dal vivo levano in alto le voci e i cuori dei fan e scatenano il pogo migliore sia degli ottimi riff, soprattutto nella parte finale. Su questa linea si continua anche con la successiva “The Butcher in Me”, dove i cori e gli ottimi riff la fanno da padroni, per poi esplodere nella bella “Call Off The Dogs”, dove agli elementi precedenti, che vengono mantenuti, la velocità aumenta ulteriormente per poi sfociare anche in un paio di battute urlate, che testimoniano sul campo quanto Santana potrebbe portare di nuovo (e di ottimo) nel sound degli Ignite.

Con “The House Is Burning” si torna in territori più melodici, ma senza mai perdere né di intensità né di quota di anthem, che si mantiene anche in questo caso. Su “Enemy” si prosegue sulle melodie dai toni lievemente più scuri e ombrosi, che rimangono anche sulla seguente “State of Winsconsin”, pur senza dimenticare mai quanto il punk-hardcore sappia cavalcare deciso sul dorso di chitarre e pelli di batteria. “Let the Beggars Beg” conclude l’album con un tocco di profondità oscura e intensa, una scelta forte e non banale, quasi alla AFI, che conferma nuovamente quanto la band sia profondamente radicata nei valori sociali che propone nei suoi testi e nei suoni tipici della storia del punk californiano degli anni Novanta e Duemila.

Insomma, Ignite altro non è che una bella miscela di hardcore melodico in salsa Orange Country, di quelle che contribuiscono a fare grande il nome del punk hardcore e dello skate punk californiano nel mondo. Un album di riconferma e rinascita che porta gli Ignite ad aprirsi le porte verso gli anni Venti, con la forza di un passato importante e la carica di un’energia nuova tutta ancora da esplorare.