Mi è capitato di vedere dal vivo i Le Lucertole (si fanno chiamare proprio così, con il doppio articolo) allo showcase di Costello’s agli inizi di maggio, nell’ambito di una serata in cui venivano presentati alcuni degli ultimi progetti dell’etichetta milanese. All’epoca erano usciti solo una manciata di singoli, puntualmente eseguiti assieme ad una versione speciale dell’ancora inedita “Orbo”, che per l’occasione ha visto alternarsi alle strofe compagni di roster come Marta Tenaglia, Qualunque e Carma dello Studio Murena. Una festa ben riuscita, con loro che, pur giovani (credo non abbiano più di vent’anni) hanno dato l’impressione di sapere esattamente che cosa stavano facendo, grezzi, su di giri ma assolutamente a fuoco nella performance live.
I ragazzi coi gomiti sui tavoli, già nel titolo perfetta rappresentazione di quella Generazione Z da cui provengono e che si sono presi, per così dire, l’impegno di raccontare, è l’approdo di un percorso iniziato a gennaio col primo singolo “Spazzolino”, che a sua volta riprendeva la narrazione inaugurata nell’ottobre 2019 dall’EP Sette negroni (postumi) e poi bruscamente interrotta (presumo per lo scoppio della pandemia ma non ho elementi sufficienti per dirlo).
Mattia Bizzo, Filippo Sammaritani, Matteo Girometti, Francesco Radaelli e Zaccaria Nadifi vengono da Rimini e hanno deciso che la loro missione sarà quella di “salvare il Pop italiano”. Ovviamente bisogna leggere il tutto come una manifestazione di quel non prendersi troppo sul serio e di quell’attitudine cazzara che da sempre li contraddistingue, ma attenzione a sottovalutarli: per quanto giovani, questi cinque romagnoli hanno dalla loro una capacità di scrittura ed una potenza espressiva notevoli e hanno confezionato dieci canzoni che sono davvero piccole gemme, in bilico tra It Pop e dimensione Urban. Il modo in cui fanno interagire tra loro entrambe queste anime, il modo in cui si servono delle varie influenze per dare vita ad un qualcosa che potrebbe essere quasi considerato originale, è senza dubbio uno dei grandi punti di forza di questo lavoro. Se lo sono prodotti da soli, con l’aiuto di Massimiliano Giorgetti, che li ha registrati al Majorizm Lab e la prima cosa che colpisce è la scelta in sede di arrangiamento: laddove oggi si tende molto a riempire il suono, spesso e volentieri aggiungendo Beat ed elementi di elettronica, qui si è optato per un sound il più possibile scarno, quasi al confine col Lo Fi. L’impostazione è infatti quasi sempre acustica, chitarre in primo piano e voci a dialogare tra loro, sezione ritmica nel complesso discreta, l’utilizzo dell’elettronica ridotto al minimo indispensabile e sempre con una funzione di rifinitura.
La cosa interessante è esattamente questa: i nostri hanno isolato di volta in volta il nucleo melodico della canzone e lo hanno messo al centro del pezzo, contornandolo con strofe che funzionano molto come una narrazione, vedendo l’alternanza dei vari membri dietro il microfono ed utilizzando spesso e volentieri gli stilemi dell’Hip Hop. L’effetto è vincente perché attorno ad un ritornello stabile e sempre di grande impatto, ruota una struttura molto dinamica, grazie alle differenti interpretazioni e intenzioni date alle strofe.
E poi ci sono i testi, che non solo mettono in mostra notevoli capacità espressive (“La via lattea nel complesso è una discarica di sogni realizzata a cielo aperto” è un verso di notevole fascino, per non parlare poi dell’imperativo “Sette negroni non è un gioco, è un inizio”) ma anche una certa lucidità e consapevolezza nella descrizione del proprio stare al mondo.
Già l’iniziale “Supercoppa”, classica partita di cui non frega niente a nessuno se non ai diretti interessati, è una metafora incisiva di una certa condizione esistenziale, una visione rincarata dalla metafora espressa dalla title track, rappresentazione di chi non accetta di conformarsi a quelle che avverte solo come regole prive di reale motivazione e sostanza.
C’è una visione della vita che a tratti può apparire disincantata o, peggio, disillusa, ma che è forse più adeguato definire consapevole: ne è un esempio l’intreccio tra sogni, realtà ed ambizioni di “Apollo 11”, canzone costantemente in bilico tra l’esigenza di tenere i piedi ben piantati a terra e la naturale aspirazione a sognare e a costruire visioni di grandezza. Tutto questo, nel riconoscimento del fatto che “a esser sognatori non basta saper sognare” (come dicono da un’altra parte) e occorre confrontarsi con la realtà in tutta la sua dimensione drammatica. Accade in “Camomilla”, accade in “Spazzolino”, correlativo oggettivo di una stabilità affettiva desiderata ma molto difficile da ottenere; accade soprattutto in “Petali/Per un fiore”, che si distacca un po’ da dal mood generale per andare ad abbracciare un cantautorato dagli echi struggenti, dimostrando che anche in questo versante il quintetto se la cava benissimo.
Menzione speciale per “Sei del mattino”, sorta di interludio da un minuto e mezzo, posto esattamente a metà disco, che campiona “I Can’t Do Enough For You Baby” di Tommy Tate, fondendo quindi la Black Music con un approccio alle strofe decisamente Hip Hop, e recuperando l’immagine alcolica degli esordi, per affermare laconicamente che “sette negroni non è un gioco, è un inizio”. Decidete voi se prenderla come metafora di consapevolezza artistica oppure brutalmente alla lettera.
“Orbo” è lo zenith dell’album? Può darsi, perché questo lungo racconto sull’incontro tra un vecchio e la morte, con riflessioni ironiche, disincantate e al contempo profondissime sulla bellezza della vita ma anche sulla difficoltà di trovarne un senso, rappresentano la prova provata di un gruppo che può giocare coi cliché senza per questo rendersi banale. E non dimentichiamoci di un ritornello talmente forte che quando la suonarono dal vivo nell’occasione sopra ricordata, alla seconda volta lo cantavamo già tutti.
Se proprio salveranno il Pop italiano non saprei. Di sicuro c’è che la loro freschezza e la loro bravura faranno molto bene ad un genere che più passa il tempo più risulta stantio e ripetitivo. Li aspettiamo dal vivo.