I negozi di dischi sono romantici tanto quanto le librerie e tutte quelle altre cose che la modernità ha condannato all’obsolescenza per una serie di congiunture contro le quali, purtroppo, c’è ben poco da fare. Non troverete più nessun ragazzino che da grande vuole fare il proprietario di un negozio di dischi e noi genitori ce ne guardiamo bene dal mettere strane idee in testa ai nostri figli, che già se per sfiga qualcuno da piccolo manifesta la velleità di fare il musicista cerchiamo subito di correre ai ripari e a fare di tutto per tutelare la sua autostima, ancor prima del suo futuro. Già ce li vediamo, profughi dell’economia produttiva, dirigersi con uno strumento acustico sul groppone alle direttive di un visionario che, con la bacchetta in mano, li costringe a esprimersi incompresi e con un ritmo invisibile in un linguaggio vecchio come il cucco rivolto a dei tromboni tanto quanto quelli che suonano loro o i loro colleghi. O, ancora peggio, a trasudare rock e sofferenza nell’inferno dell’industria discografica e nell’umiliante mercato italiano. Figuriamoci a vendere oggetti tondi inutili a consumatori superflui dal punto di vista dei numeri che contano.
Forse noi siamo stati gli ultimi a sognare di alzare le saracinesche alle luci dell’alba e a dare il benvenuto ai clienti con l’ultimo disco arrivato per suscitare la loro curiosità. Vedersi intorno i clienti abituali, quelli più esigenti, chi ha bisogno di aiuto e a chi entra solo per dare un’occhiata e se ne va senza acquistare nulla. E ancora gli esperti che sanno tutto di tutti e persino i presuntuosi che vorrebbero sostituirsi ai negozianti, per non parlare dei commessi dei negozi di dischi più snob con il loro tono metallico standard.
Mi piacerebbe raccogliere delle testimonianze di chi gestiva negozi di dischi in passato per capire come si svolgesse la loro attività, come si organizzava il lavoro, in base a quale criterio si sceglieva la merce da acquistare, quanto contasse il gusto del proprietario o la capacità di intercettare la domanda, se vendere dischi (sia in vinile/musicassetta che su cd) era molto diverso dalle altre categorie merceologiche, quali erano i margini e che se ne facevano i negozi dell’invenduto, se c’era la possibilità di fare sconti e offerte, se i prezzi erano uguali per tutti o ci si poteva permettere di alzarli e abbassarli a seconda delle proprie esigenze, e che effetto ha fatto, quindi, vedersi diventare sempre meno necessari, se c’è stato il sentore o un’avvisaglia dei grandi cambiamenti dovuti a Internet o se nessuno pensava che tutto potesse crollare così.
A dire la verità, però, poco più di un mese fa ho scartabellato tra gli scaffali e i contenitori dello store della Rough Trade in Brick Lane a Londra e non ho avuto né l’impressione di sostare al capezzale di qualcuno, né, però, che quel posto avesse qualcosa di romantico. Il negozio era stracolmo di merce sia in vinile che su CD, era freddo e pieno di clienti freddi, c’era persino un bar all’ingresso dove gli accompagnatori potevano attendere senza metter fretta a chi dava un’occhiata in giro. Quindi boh, forse è un fenomeno tutto italiano e la colpa di tutto questo è anche mia, che anche se ho smesso con gli mp3 grazie a Spotify comunque compro dischi nuovi su Amazon perché nei negozi non li trovo, e compro dischi usati alle bancarelle, che forse sono la cosa più vicina al ricordo che ho io dei negozi di dischi ma che è un mestiere che non farei mai.