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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
18/01/2018
Coming Out: dai Bee Gees a Masterchef
I miei scheletri nell'armadio
Il vero plot di Masterchef, invece, è l’arena, non quella sportiva, ma quella truce e violenta dove i cristiani venivano mandati al macello e i gladiatori combattevano fino all’orgasmo del sangue. È questa la logica di ogni talent show: un processo osmotico sado-maso fra concorrenti e spettatori.

Questa è la seconda volta che faccio coming out. La prima, risale a qualche tempo fa, quando durante una trasmissione radiofonica, ammisi che a dodici anni ero pazzo per Amanda Lear e i Bee Gees. Pensavo che fosse una cosa simpatica raccontare di quel piccolo peccato veniale, reso ancor più mite dalla tenera età e dal tanto tempo trascorso dalla mia adolescenza. Invece, un cazzo. I miei amici non me lo perdonarono mai, e ancora oggi non perdono occasione per sfottere, manco avessi confessato di votare Berlusconi o tifare Juve, confini etici, superati i quali, un uomo non può più definirsi tale.

Oggi, però, mi tocca farne un altro, il secondo, perché ho bisogno di liberarmi da un fardello che da ormai troppo tempo grava sulle mie spalle, una vergogna intima, di quelle che ti fanno abbassare lo sguardo dal tuo riflesso allo specchio.

Tenetevi forte, perché anch’io stento a crederci: lo ammetto, guardo Masterchef! Lo faccio ogni giovedì, nessuno escluso, ormai da qualche anno. Non chiedetemi perché, non saprei rispondervi. È  così, è successo e non so capacitarmene. Il giorno prima, ti vanti di non aver mai dato uno sguardo alla tv generalista, di amare solo film d’essai, di essere un pasdaran di Cannes; e il giorno dopo, ti ritrovi a pendere dalle labbra di Cannavacciuolo. Inquietante.

Non è stato un percorso graduale, come quello che si dice facciano i tossici, passando dalla marjuana alla coca: è successo tutto all’improvviso, una scanalata, un piatto fumante, ti fermi, guardi, ti umetti le labbra concupiscenti, e sei fottuto. E dal momento che, così almeno recita il proverbio, il malanno arriva in carrozza e va via a piedi, sono quattro anni che il giovedì sera non me ne perdo una puntata.

All’inizio, l’attrazione era fatale: prelibatezze di ogni tipo, succhi gastrici in movimento, la panza desiderosa e la mente già predisposta, per il giorno successivo, all’emulazione di raffinatissime pietanze (come se, peraltro, nel mio frigorifero, a fianco dell’insalatina Bonduelle e del caciocavallo, stazionassero con naturalezza mezzi piccioni, ostriche fresche e marmitte di foie gras de canard).

Oggi, arrivato alla settima stagione del programma, e ormai al culmine della dipendenza cronica, non riesco a smettere di guardarlo, ma ormai il giochino mi ha stufato e durante le due ore abbondanti di trasmissione rischio la lussazione della mandibola a furia di sbadigli.

Nonostante ciò, il giovedì, continua a essere il giorno di Masterchef, anche se finalmente ne ho comprese la mendace natura e la fuorviante essenza.

Non è solo la ripetitività della formula, cristallizzata nel tempo e immutabile come la struttura compositiva di una canzone degli Ac/Dc. C’è qualcosa di più strisciante e pericoloso, qualcosa che si cela dietro la presunta patina di food reality ed eccita, invece, i nostri più biechi istinti.

In primo luogo, il cibo con Masterchef c’entra poco o nulla, è solo un pretesto, il gancio per attirare schiere di indomiti gourmet, che pensano di trovare nel programma una guida alla soddisfazione dei loro appetiti gastronomici.

Il vero plot di Masterchef, invece, è l’arena, non quella sportiva, ma quella truce e violenta dove i cristiani venivano mandati al macello e i gladiatori combattevano fino all’orgasmo del sangue. È questa la logica di ogni talent show: un processo osmotico sado-maso fra concorrenti e spettatori.

I primi, i masochisti, sono disposti a subire ogni forma di umiliazione, tanto da venire spogliati della loro dignità e delle loro competenze (reali) e trasformarsi, nelle sapienti mani dei conduttori, in macchiette mono-caratterizzate (quella che piange sempre, quello arrogante, quello simpatico, quello anziano, quello di colore, etc.). Privati di ogni connotazione caratteriale non prevista dal copione, strisciano ai piedi dei quattro giudici, implorando attenzione, gentilezze, riconoscimenti. Umanità, soprattutto. Loro malgrado, però, vengono considerati a livello di immondi paria, che palesano un evidente debito di Q.I. e gravi problemi di coordinazione fisica.

Dall’altra parte dello schermo, invece, gli spettatori, quelli sadici, onanisti compulsivi eccitati dalla vergogna altrui, dispensano sprezzanti giudizi a destra e manca, godono della mortificazione del debole, esigono un tributo di sangue, tifano, come sugli spalti, confondendo il reale con la finzione, loro stessi fingitori del reale.

A tirare le fila del teatrino, ci sono i giudici (Cannavacciuolo, Bastianich, Barbieri e Klugmann –al cui confronto, Cracco viene ricordato come un vulcano di empatia), creature mitologiche di natura semidivina, che pretendono continui riconoscimenti professionali, da snocciolarsi come i Pater Noster del rosario (Si, Chef! Si, Chef! Si, Chef! Si, Chef!), che si ergono a maestri di vita de ‘sto cazzo, a pensatori di filosofie pret a porter, a profondi conoscitori dell’animo umano un tot al chilo, a dandy di un’eleganza al cucchiaio e di un bon ton al belletto.

Queste figure ammantate di misticismo e prelevate direttamente dall’empireo grazie a qualche strano sortilegio, questi algidi dei ex machina del destino altrui, trasudano un’arroganza prossima alla protervia, proprio come quei signorotti feudali che, spiluccando uva, inflessibili, esercitano lo ius vitae ac necis sul disperato di turno.

Così, tu che vorresti solo goderti i passaggi, lenti, cadenzati, e amorevolmente spiegati, su come cucinare un buon piatto, ti trovi, invece, a fare i conti con una frenesia disturbante, con lacrimosi siparietti, insulti ad alzo zero, derive razziste (i luoghi comuni di Bastianich sui cinesi sono già entrati nella leggenda), imperativi di hitleriana memoria, diatribe da mercato del pesce, sguardi in tralice e scaramucce da osteria. Per non parlare, poi, di quell’inaccettabile “su le mani!”, urlato alla fine di ogni prova e destinato solo alla versione nazionale del programma (in Masterchef Usa e Australia, ad esempio, non ve n’è traccia), che suona come un riferimento sgarbato al presunto malvezzo tutto italico di cercare la vittoria attraverso l’inganno. Insomma, oltre a masochisti e sadici, pure furbetti.

Ecco il mio coming out, dunque, ed ecco svelata la triste verità: Masterchef è una cazzata pazzesca, ma io continuo a guardarlo. Come un ebete.

Devo ribellarmi.

Ci vorrà tempo, non sarà facile, ma sono convinto che prima o poi, il giovedì sera, tornerò a dedicarlo a qualche oscuro regista coreano.

Prima o poi.

D’altra parte, sono riuscito a uscire dal tunnel di Stayin’ Alive. Mica pizza e fichi.