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REVIEWSLE RECENSIONI
03/12/2017
Bob Seger
I Knew You When
Quel rock aggressivo e lineare, quell’impasto blue collar di country, blues e rock, di suoni sporchi e melodie radiofoniche, di grinta operaia, di sudore e di birra, continuano a echeggiare in tutte le tracce di I Knew You When

Settantadue primavere gli imbiancano la criniera, ma Bob Seger è un leone che continua a ruggire a dispetto dell’età. E non è un caso che voglia ricordarlo a tutti con quella foto sulla copertina di I Know You When, diciottesimo album in carriera, che lo ritrae nella gagliarda sfrontatezza dei suoi vent’anni. Il tempo non ha lasciato strascichi e il rocker di Detroit non ha perso un grammo di quella vitalità che incendiava dischi rocciosi come Back in ’72 e Beautiful Loser.

Quel rock aggressivo e lineare, quell’impasto blue collar di country, blues e rock, di suoni sporchi e melodie radiofoniche, di grinta operaia, di sudore e di birra, continuano a echeggiare in tutte le tracce di I Knew You When. Un disco prevedibile, come lo possono essere solo i dischi di Bob Seger, e un rock diretto, sanguigno, di grana grossa quanto si vuole, ma ancora capace di eccitare gli animi di chi è cresciuto con una copia di Live Bullet sotto il cuscino.

Seger ci tiene a dimostrare subito che nulla è cambiato e, quando partono le prime note di Gracile, una zampata rock blues da k.o., Bob mostra muscoli ancora vigorosi e mette in fila tante presunte giovani promesse che difficilmente riusciranno a tirar fuori dal cilindro un suono così sporco e aggressivo. Che Seger, nonostante una recente operazione alla schiena, abbai ritrovato l’antica forma, lo si capisce anche dalla straordinaria cover che fa di Busload Of Faith, brano preso in prestito da Lou Reed (l’originale la trovate su New York del 1989), qui reinterpretata anche nel testo, ritoccato con espliciti riferimenti a Donald Trump.

E che dire di The Highway, rock che fila via dritto come un fuso, sostenuto da quegli arrangiamenti di tastiera tanto risaputi quanto efficaci, o della title track, archetipo di quei ballatoni virili e senza fronzoli che possono uscire solo dalla penna di Seger o di Springsteen (d’altra parte, la famiglia di provenienza è la stessa)?

Canzoni essenziali, quasi primitive nella loro struttura elementare, eppure ancora irrorate dal sacro sangue del rock’n’roll, da quel senso ruspante per la musica che ci fa venir voglia di guidare una decapottabile, il volume dello stereo al massimo e il piede premuto sull’acceleratore, mirando dritto verso l’orizzonte. Così, perdoniamo volentieri a Seger anche qualche brano non particolarmente ispirato, come la cover di Democracy di Leonard Cohen o la zeppeliniana The Sea Inside, “liberamente” ispirata a Kashmir, entrambe troppo distanti dal mood dell’album e dalle corde del rocker di Detroit.

Quando, però, parte la conclusiva Glenn Song, però, commossa ballata per ricordare l’amico Glenn Frey, una lacrima inevitabilmente ci riga la guancia, e siamo felici che Bob lotti ancora insieme a noi. Basilare e verace come sempre: ben ritrovata Detroit, ben ritrovato rock’n’roll.