Quando nel 1993 si rivelava al mondo con un’infuocata versione di “Rid of Me” al Tonight Show with Jay Leno, nessuno immaginava che quella ragazza ventiquattrenne che si dimenava sul palco, evidenziando tutto il contrasto possibile tra il suo fisico minuto e la voce terremotante, ancora contemplava l’ipotesi di ritirarsi dalle scene di lì a pochi anni per poter finalmente iscriversi a quell’accademia d’arte che sognava di frequentare a Londra.
Le cose non sono andate esattamente così. Trent’anni dopo PJ Harvey ha raggiunto una statura artistica che in pochi possono vantare, l’attesa spasmodica per il suo nuovo disco, il primo dopo sette anni, a certificare da sola che siamo di fronte ad uno dei più grandi nomi della sua generazione.
E quindi niente pittura, anche se è una passione che non ha mai smesso di coltivare nei ritagli di tempo; Polly Jean, però, ha imparato a scrivere poesia. Lo ha fatto seriamente, assecondando un amore sbocciato sin dalla prima giovinezza, con la lettura di Blake, Heaney, Mackay Brown. Successivamente, mentre scriveva Let England Shake, si è avvicinata ai cosiddetti War Poets ed è rimasta affascinata da come si potesse descrivere una realtà brutale con parole bellissime. Da qui la voglia di imparare a fare lo stesso, ponendosi sotto la guida dello scozzese Don Paterson, per un periodo di studio e lavoro durato tre anni è sfociato nella pubblicazione, nel 2015, della sua prima raccolta, The Hollow of the Hand.
Orlam è senza dubbio un passo più ambizioso. Trama grottesca e visionaria, sorta di folle incrocio tra “La saggezza del sangue” di Flannery O’ Connor e “E l’asina vide l’angelo” di Nick Cave, questo romanzo in versi è ambientato nel villaggio immaginario di Underwhelem e ha come protagonista Ira-Abel Rawles, una bambina di nove anni che vive coi suoi genitori in una fattoria (ci sono dunque spunti autobiografici, visto che lei stessa è cresciuta in un contesto simile); in questo improbabile scenario si muove tutta una pletora di strani personaggi, osservati dallo sguardo attento di Orlam, l’occhio dell’agnello morto Mallory-Sonny, che funge da narratore onnisciente e insieme voce oracolare della storia.
Storia che è decisamente difficile da seguire, non tanto perché scritta nel dialetto del Dorset (c’è anche una traduzione inglese ed un ricco glossario con tutte le parole e le espressioni più desuete) quanto per la non linearità della vicenda e per un livello linguistico che risulterebbe probabilmente ostico anche per un madrelingua.
Tutto questo per dire che anche quest’opera, così come accaduto per The Hollow of the Hand, è divenuta il punto di partenza per un disco in studio. Un disco che, lo abbiamo detto all’inizio, era atteso da sette anni, che non sono stati certo trascorsi nell’inattività (la colonna sonora della serie tv Bad Sisters di Sharon Horgan, la pubblicazione di tutti i demo relativi ai dischi in studio e, ovviamente, il lavoro di scrittura di Orlam, che le ha portato via parecchio tempo).
Il punto di partenza stavolta è diverso: Let England Shake e Hope Six Demolition Project erano due dischi aperti al mondo, “politici” per certi versi, hanno portato la stessa autrice a porsi in una dimensione più ampia di quella strettamente musicale (soprattutto il secondo, con i viaggi in Kosovo, Kabul e Washington D.C., immortalati nello splendido documentario di Seamus Murphy A Dog Called Money); Orlam risponde invece al desiderio di ripartire dal particolare, dal quotidiano, senza tuttavia rinunciare all’indagine sugli aspetti più crudi del reale (“Sono attirata dal lato oscuro della realtà – ha dichiarato in una recente intervista – se vedo una pietra mi piace rovesciarla per vedere cosa c’è sotto”).
Anche dal punto di vista strettamente musicale ci sono delle differenze notevoli. Partiamo da una considerazione: chi scrive non ha mai pensato che la PJ Harvey migliore fosse quella dei suoi dischi degli anni ’90, in particolare Rid of Me e To Bring You my Love. Sarà perché il mood di quel periodo, tra chitarre aggressive, atmosfere cupe e l’ombra del Grunge perennemente sullo sfondo, non mi è mai del tutto andato a genio, ma per me l’artista inglese comincia a raggiungere il massimo delle potenzialità espressive con Stories from the City, Stories from the Sea, passando poi per il capolavoro dimenticato White Chalk, e approdando ai due ultimi dischi già citati, che se da una parte consistente della critica sono stati definiti poco ispirati, per chi scrive rappresentano invece i suoi lavori migliori.
Il team è sempre quello: Flood, John Parish e Adam “Cecil” Bartlett, con l’aggiunta di Ben Whishaw e Colin Morgan alle backing vocals. I sei si sono rinchiusi per qualche settimana ai Battery Studios di Londra, assistiti dal solito Rob Kirwan, che aveva registrato anche i due album precedenti.
Un gruppo molto più ristretto, rispetto a quello che aveva suonato su Hope Six…, e che a questo giro ha lavorato in completa tranquillità, senza che il pubblico fosse invitato ad assistere alle session come accaduto sette anni fa.
La modalità operativa, comunque, è rimasta la medesima: trattare lo studio come fosse una sala prove, disporsi in cerchio, suonare tutti assieme e registrare quel che viene fuori. Il risultato è ancora una volta sorprendente, per molti versi inedito, tanto che si può senza dubbio considerare I Inside the Old Year Dying come speculare al suo predecessore.
A questo giro infatti il suono non è più stratificato, corale, le ritmiche non sono più protagoniste e la vocalità non è piena, sostenuta. Nel nuovo disco dominano sonorità scarne e rarefatte, l’approccio è volutamente minimale e il modo di cantare di Polly Jean è forse ciò che colpisce di più: lei stessa ha raccontato come Flood l’abbia guidata in molti aspetti interpretativi, dandole anche indicazioni curiose (per esempio in “Prayer at the Gate” le ha chiesto di impersonare una donna più anziana, in “Autumn Term” una bambina che torna da scuola).
Ne scaturisce una prova vocale magnifica, probabilmente la migliore della sua carriera: utilizza di più il falsetto, è attenta ad ogni piccola sfumatura, dà corpo ad ogni parola come mai prima d’ora. È una maturazione dovuta senza dubbio all’età ma è indubbio che il vestito più spoglio fatto indossare ai brani abbia fatto la sua parte, permettendo alla voce di risaltare maggiormente.
Don Paterson, che ha scritto una suggestiva presentazione del disco, dice che la prima impressione che si prova ascoltando queste canzoni è quella di essere di fronte ad una “esibizione improvvisata per un pubblico composto soprattutto da alberi e fantasmi”.
Ad ascoltare “Lwonesome Tonight”, con la sua atmosfera cupa e i suoi pochi elementi, una chitarra arpeggiata e poche percussioni, oppure l’elegia di “August” (dove PJ duetta con John Parish) o la sottile rarefazione di “All Souls”, pare proprio che sia così.
È una caratteristica ottenuta anche grazie all’uso dei Synth e del Field Recorder (lei stessa ha raccontato di essersene andata in giro per la campagna a registrare il rumore del vento tra gli alberi e il muggito delle mucche, che effettivamente si sente con chiarezza al termine della conclusiva “A Noiseless Noise”), due strumenti che avvolgono con eleganza una collezione di brani scaturiti da un ampio lavoro di sottrazione.
“The Neether-Edge”, tutta giocata su una ritmica pulsante, ipnotica e ripetitiva, oppure la title track, crudamente acustica a recuperare la dimensione Folk, con una “gemella” (“I Inside the Old I Dying”), più piena e dall’incedere urgente; e poi “Seem an I”, che si apre come un salmo, con la voce unica presente in scena, per poi vedere l’ingresso degli strumenti, chitarra, basso e batteria, col ritornello impreziosito dalle aperture melodiche dei fiati (meno presenti che nel lavoro precedente ma sempre molto efficaci quando vengono usati). Tutti esempi di una scrittura che, nonostante la lunga pausa, non si dimostra per nulla arrugginita. Un po’ di mestiere qua e là, certo, ma in generale una tenuta notevole, una perfetta comunione d’intenti tra tutti i membri del suo team creativo, un lavoro ancora più degno di nota se si pensa che queste dodici canzoni sono nate nel giro di tre settimane.
Non è un disco da sottofondo. È un disco solo apparentemente semplice, la tentazione di cadere in un’analisi superficiale e liquidarlo come un lavoro manierista potrebbe essere forte. La verità è che nell’arco di questi 37 minuti c’è tanta complessità, sono canzoni che non solo paiono nascere da una dimensione interiore, ma che scelgono di non rivelarsi, preferendo rimanere all’interno di un monologo che non si dà mai all’esterno, come se alla fin fine il carattere enigmatico del romanzo da cui prendono le mosse le abbia fin troppo condizionate.
Ho il sospetto che, nonostante la lunga attesa e le aspettative altissime, di questo nuovo lavoro di PJ Harvey ci dimenticheremo nel giro di pochi giorni. Ci vuole tempo per comprendere davvero che cosa ci vuole dire, e questo tempo, oggi come oggi, non vogliamo o non siamo più in grado di prendercelo.
Resta che, a 54 anni, l’ex ragazza del Dorset è riuscita ancora una volta ad incantare.